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Viaggio nelle disuguaglianze della sanità: così la povertà esclude dalle cure


E’ la cosiddetta spesa “out of pocket” sostenuta direttamente dai cittadini e che nel complesso in Italia ha superato la cifra monstre dei 40 miliardi. In linea di massima, chi più ha più spende e infatti l’acquisto privato di visite ed esami cresce maggiormente nelle Regioni ricche. Sono costretti a chiamarsi fuori quelli che non possono permettersi di mettere mano al portafoglio per garantire le cure per sé o per i propri cari. Come buona parte dei cittadini della Sardegna, primi per rinuncia alle cure.

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Liste d’attesa infinite per i fragili

Sull’intera popolazione, da Nord a Sud con poche eccezioni, incide poi la magagna liste d’attesa. Gli italiani che rinunciano a curarsi davanti a “code” infinite sono passati dal milione e mezzo del 2019 ai 3 milioni del 2023, con 372mila persone in più fotografate dall’Istat sempre nel Rapporto Bes. Un incremento che – sottolineano i ricercatori – “può attribuirsi a conseguenze dirette e indirette dello shock pandemico, come il recupero delle prestazioni in attesa differite per il Covid-19 o la difficoltà di riorganizzare efficacemente l’assistenza sanitaria, tenuto conto dei vincoli a coprire l’aumento della domanda di prestazioni con un adeguato numero di risorse professionali e non da ultima la spinta inflazionistica della congiuntura economica, che ha peggiorato la facoltà di accesso ai servizi sanitari”. In sintesi, mancano risorse e personale.

La chance della sussidiarietà circolare

Come uscirne? Per Stefano Zamagni, docente di Economia civile all’Università di Bologna, di International Political Economy alla John Hopkins University e presidente emerito della Pontificia Accademia delle Scienze sociali, va applicato il concetto di sussidiarietà circolare anche nel contrasto delle liste d’attesa. “Primo – spiega – vanno fissati gli obiettivi specifici che si intendono perseguire. Secondo, vanno definiti i criteri di prioritarizzazione nell’esecuzione degli interventi, secondo il principio di giustizia intesa come equità. Terzo, occorre definire le fonti di reperimento delle risorse necessarie, posto che la tassazione generale non è più sufficiente ad assicurare l’universalismo delle prestazioni”. Per Zamagni “è urgente iniziare a discutere della proposta dell’Industry Health Model, come avviene all’estero: le imprese private – profit e non profit – che operano a monte o a valle del servizio sanitario dovrebbero contribuire con l’ente pubblico nel supportare i costi di formazione del capitale umano e di funzionamento dei laboratori, secondo modalità concordemente definite. Invero, queste imprese – che operano con successo sul fronte dei dispositivi medici, dei farmaci, dei vaccini e altro – si avvalgono di personale altamente qualificato i cui costi di formazione vengono sostenuti dallo Stato per oltre un decennio”.

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“Nel dibattito pubblico tutto è molto schiacciato sul pur necessario argomento del recupero della spesa sanitaria – prosegue Luca Pesenti, docente di Sociologia all’Università Cattolica e coordinatore dell’Osservatorio sulla Povertà sanitaria di Banco Farmaceutico -. Ma non è solo un problema di spesa. Dal 2011 al 2020 il servizio sanitario nazionale ha perso 37 miliardi tra definanziamenti, tagli, eccetera. Ma come Osservatorio riteniamo che questa discussione sia insufficiente: non è solo un problema di spesa ma è probabilmente un problema di assetto. In Italia noi parliamo dagli anni ’80 e ’90 di Welfare Mix, per dire che a livello territoriale i sistemi di Welfare dei Comuni sono in larga parte ormai gestiti proprio dal Terzo settore. Allora è ora di aprire una discussione sul pieno riconoscimento di quelle 12.000 e passa organizzazioni di Terzo settore, che già qui e ora ma anche storicamente fin dal Medioevo si stanno occupando di questo mondo della sanità. Con competenza, con passione e con acume. Abbiamo bisogno – prosegue – di ridisegnare il Servizio sanitario nazionale tenendo dentro quwesta risorsa soprattutto nella sanità di territorio, che è quella che fa più fatica e anche i dati recenti ce lo confermano”.

La carta Terzo settore per includere gli ultimi

Lea sintomo dell’esclusione

Nel frattempo, abbiamo assistito al raddoppio dal 2,8% al 4,5% tra 2019 e 2023 di quanti hanno rinunciato alla sanità per problemi di liste d’attesa, che hanno avuto ripercussioni particolarmente sempre sui più fragili. Per loro come per tutti i cittadini dovrebbe aprirsi l’ombrello dei Livelli essenziali di assistenza (Lea), le prestazioni che il Servizio sanitario è tenuto a erogare gratuitamente o dietro pagamento dei ticket. Ma proprio i Lea sono la cartina di tornasole delle disuguaglianze che troppo spesso vanno ad alimentare la povertà sanitaria. Se sulla carta crescono le prestazioni ricomprese nel pacchetto Ssn, troppi territori restano scoperti, come certifica il ministero della Salute nel suo ultimo monitoraggio. Sono ancora otto le Regioni che non riescono a garantire prestazioni adeguate ai loro cittadini in tutte e tre le aree dei ricoveri ospedalieri, delle cure territoriali e della prevenzione: dalla Valle d’Aosta all’Abruzzo, dalla Calabria alla Sicilia, da Bolzano alla Liguria e dal Molise alla Basilicata. Realtà sotto-soglia, per lo più concentrate nel Sud del Paese, che le famiglie devono lasciare quasi sempre per necessità se vogliono ricevere prestazioni adeguate che vanno ad alimentare una mobilità sanitaria arrivata a 5 miliardi di euro e lo stesso circolo vizioso della povertà sanitaria.



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