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Precarietà e bassi salari. Rapporto Fondazione Di Vittorio sul lavoro in Italia a dieci anni dal Jobs Act


Dal Jobs Act ai referendum sul lavoro

Sono trascorsi dieci anni dall’introduzione del Jobs Act, la riforma che prometteva di aumentare l’occupazione e combattere la precarietà, rilanciando la crescita dell’economia italiana. A dieci anni di distanza – e alla vigilia dei referendum sul lavoro promossi dalla Cgil che si tengono l’8 e il 9 giugno 2025 – è il momento di verificare i risultati che ha avuto e di fare il punto sulla situazione del lavoro in Italia.

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Il Jobs Act ha portato, nel complesso, a un indebolimento delle tutele e delle condizioni di lavoro per lavoratori e lavoratrici. I contratti a termine e part time riguardano stabilmente ormai quasi il 30% degli occupati e colpiscono in modo particolare i giovani, le donne e i laureati: la precarietà è diventata un elemento strutturale del lavoro in Italia. L’aumento del numero di occupati si accompagna alla più lenta crescita delle ore lavorate totali, data l’espansione del lavoro part time. La domanda di lavoro si concentra nei settori dei servizi a bassa qualificazione, con un modesto livello tecnologico e bassi salari. In termini reali, i salari italiani hanno registrato una caduta senza precedenti. Questi sviluppi hanno contribuito ad aggravare il declino dell’economia italiana, alimentando un circolo vizioso tra lavoro precario, bassi salari, bassa produttività e bassa crescita, portando a un crescente divario nei confronti delle principali economie europee.

L’economia italiana.

Dal 2000 a oggi l’economia italiana ha registrato un lungo ristagno. Il Prodotto interno lordo (PIL) per abitante in termini reali è oggi pari a meno di 31 mila euro l’anno (prezzi costanti del 2015), poco più alto di quello del 2000. Il confronto con i maggiori paesi europei mostra che i divari sono aumentati notevolmente: nel 2000 la Germania aveva valori poco più alti dell’Italia, oggi ha un PIL per abitante più alto di un terzo. La debolezza dell’economia è alimentata ed alimentala scarsa produttività;

La produttività, i profitti e i mancati investimenti. La produttività che non cresce è anche il risultato della caduta degli investimenti. Tra il 2010 e il 2019, prima della pandemia, gli investimenti (pubblici e privati) in Italia sono caduti in termini reali di 8 punti percentuali, mentre sono aumentati del 16% in Francia e del 20% in Germania. Dopo la pandemia, in particolare con il PNRR, si è registrata una ripresa degli investimenti pubblici. La caduta degli investimenti in Italia è uno dei fattori che ha prodotto bassa crescita dell’economia, della produttività e dell’occupazione. E i bassi investimenti sono drammaticamente conseguenza di scelte di politica aziendale fatte da una classe imprenditoriale miope e da una politica incapace di incentivare (anche quando mette a disposizione delle imprese risorse pubbliche) ad investire. Infatti, tra il 2020 e il 2023, gli azionisti delle società industriali censite da AST (Area Studi Mediobanca) si sono distribuiti ogni anno in media l’80% degli utili, lasciando appena il 20% a disposizione della gestione come contributo all’autofinanziamento di nuovi investimenti.

Nel 2023 il fatturato netto delle società industriali medie e grandi esaminate dall’AST (Area Studi Mediobanca) è stato di un terzo (34%) più alto di quello del 2019, anno prima dello shock pandemico. Il valore aggiunto è risultato superiore nella stessa misura (33%). Il peso del costo del lavoro, ovvero, la quota di valore aggiunto andata a remunerare il lavoro è calata di ben 12 punti percentuali. Il peso dell’utile netto è aumentato di 14 punti percentuali nel 2023 rispetto al 2020 (quasi esattamente pari ai 12 punti in meno del lavoro).

Gli utili fatti sottraendo risorse al lavoro non vengono reinvestiti ma incassati dagli azionisti per diventare investimenti di altra natura, spesso finanziari senza nessuna utilità per l’economia reale. Questo a proposito della produttività che non cresce. Ma se gli stessi azionisti in questi anni in cui fanno enormi profitti non investono come potrà crescere?

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La traiettoria dell’occupazione dipendente. Nei vent’anni tra il 2004 e il 2024, l’occupazione dipendente totale è cresciuta complessivamente del 17%. In Italia la crescita è più elevata tra il 1995 e il 2008, con un aumento di tre milioni di occupati, mentre ristagna dal 2008 al 2024, con un incremento di un milione e 300 mila dipendenti. Negli stessi periodi l’aumento di occupati in Germania è prima di 2 milioni, poi di 5 milioni di dipendenti in più. Il divario tra i due paesi è così andato allargandosi.

Il peso degli occupati “standard” (dipendenti a tempo indeterminato full-time) sul totale dipendenti è diminuito dal 78% del 2004 al 72% del 2024; nei primi cinque anni di applicazione del Jobs Act si è passati dal 71% del 2014 al 67,9% del 2019, continuando la caduta già avviata in precedenza; Quasi il 30% degli occupati dipendenti in Italia è a termine o part time. Se consideriamo l’andamento nel tempo, i dipendenti “standard” sono aumentati lievemente rispetto ai 12 milioni e 600 mila del 2004, avevano avuto un calo fino al 2020, e hanno registrato una ripresa nel dopo-pandemia per la necessità delle imprese di disporre di figure professionali la cui offerta è stata in parte scompaginata dalla recessione, con le politiche di espansione della spesa pubblica legata al PNRR, con l’aumento dell’età pensionabile.

Osservando l’evoluzione delle attivazioni di nuovi contratti (senza considerare le cessazioni) avendo come punto di partenza l’introduzione del Jobs Act emerge una chiara divergenza tra le tipologie contrattuali: a partire dal 2016 si amplia notevolmente il numero di contratti a tempo determinato e parasubordinati (apprendistato, stagionali, somministrazione ed intermittenti). I valori assoluti sono impressionanti: nel 2024 sono stati 3 milioni e 700 mila i contratti a tempo determinato e 3 milioni e 100 mila i contratti parasubordinati. Come termine di riferimento, ricordiamo che il totale delle persone dipendenti a tempo determinato è di 2 milioni e 800 mila. Gran parte dei contratti è quindi per periodi inferiori all’anno, con un’elevatissima frammentazione delle posizioni lavorative. Le dimensioni raggiunte dai contratti parasubordinati mostrano che le condizioni di lavoro precario, temporaneo e discontinuo si estendono anche nella direzione del lavoro apparentemente autonomo, aggravando la fragilità del mercato del lavoro italiano. I nuovi contratti di assunzione a tempo indeterminato restano stabili intorno al milione e 200 mila l’anno, con un balzo soltanto nel 2015, dovuto alla forte riduzione dei contributi sociali introdotta insieme al contratto a tutele crescenti. Un aumento c’è nelle trasformazioni dei contratti a termine in tempo indeterminato (dopo 24 o 36 mesi di contratto), che passano dai 400 mila dei primi anni agli 870 mila del 2024, in lieve calo rispetto al 2023.

Le ore lavorate. Per comprendere fino in fondo l’evoluzione del mercato del lavoro italiano è indispensabile il confronto tra numero di occupati e ore lavorate totali. Con la crisi del 2008 si apre un divario tra occupati totali – prima in calo, poi in aumento – e il numero di ore lavorate, che diminuisce in modo più grave, con un gap che resta costante fino al 2019. Del totale di 18 milioni e 800 mila occupati dipendenti del 2024, 13 milioni e mezzo sono quelli “standard”, a tempo indeterminato e a tempo pieno e 2 milioni e mezzo sono a tempo indeterminato e part time. Più lavoratori si contendono un numero minore di ore lavorate.

Il Nord e il Sud. La precarizzazione del mercato del lavoro italiano non ha interessato nella stessa misura le diverse aree del Paese, ma ha aggravato la disuguaglianza tra Nord e Sud: la quota di lavoratori dipendenti a tempo determinato nel 2024 raggiunge il 20% nel Mezzogiorno e il 12% nel Nord Italia. L’aumento è concentrato negli anni successivi al Jobs Act, con una crescita forte soprattutto nel Sud del paese.

Uomini e donne. Le differenze di genere nell’occupazione sono rilevanti. La percentuale di donne che hanno contratti a tempo determinato è stata storicamente molto più elevata che per gli uomini; nel 2004 era oltre il 14% contro meno del 10% per gli uomini. Negli anni successivi al Jobs Act si registra una forte crescita e una convergenza: nel 2019 la quota per entrambi è intorno al 17%. Nella ripresa dopo la pandemia, i divari tornano a essere rilevanti, con la quota per le donne in crescita ulteriore, prima del calo registrato negli ultimi anni.

Particolarmente grave è la posizione delle donne nel lavoro part time. Il numero di donne con lavori part time è salito da 1,6 milioni nel 2004 a 2,7 milioni nel 2019, per poi stabilizzarsi fino ai 2,6 milioni del 2024. Per gran parte di questi lavoratori e lavoratrici il part time è involontario: risponde ad una scelta di flessibilità oraria ed organizzativa delle imprese piuttosto che ad una esigenza di conciliazione tra vita e lavoro da parte delle famiglie.

Giovani e anziani. La precarietà del lavoro è un problema che colpisce in modo drammatico i giovani Per i lavoratori giovani (dai 15 ai 34 anni), la percentuale di contratti a tempo determinato, sul totale dei dipendenti di quella classe di età, è balzata dal 19% del 2004 a oltre il 30% nel 2024, raggiungendo addirittura il 37% nel 2018, dopo l’introduzione del Jobs Act. Molto meno rilevante è la condizione di precarietà per i lavoratori dipendenti nella classe di età centrale (35-49 anni), arrivata al 12% nel 2024, e nella classe dei più anziani (50-64 anni), pari al 7,4%.

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Laureati e diplomati. Se consideriamo il lavoro part time dei laureati, troviamo una dinamica analoga: il numero di laureati con lavori precari e part time è aumentato di due volte e mezza in vent’anni. I contratti precari e part time non sono quindi legati soltanto a lavori a bassa qualificazione per i meno istruiti, ma investono anche le persone più qualificate. È particolarmente grave trovare che l’istruzione universitaria non metta al riparo dalla diffusione di occupazioni precarie o part time; i più giovani sono i più esposti a queste condizioni.

L’emigrazione dei giovani. Di fronte a condizioni dell’occupazione giovanile segnate dal lavoro precario e part time – e dai bassi salari, come vedremo più avanti – centinaia di migliaia di giovani italiani hanno scelto di emigrare. Nel 2024 sono emigrate dall’Italia 191 mila persone, delle quali 156 mila cittadini italiani (+36,5% rispetto al 2023), diretti soprattutto in Germania, Spagna, Regno Unito Svizzera e Francia. I rimpatri di italiani sono stati 53 mila, con un saldo negativo di 103 mila persone. Recenti pubblicazioni hanno aggiunto ulteriori informazioni sull’emigrazione italiana, mostrando che si tratta soprattutto di giovani e in misura crescente di persone laureate. Se consideriamo le persone tra i 18 e 34 anni, l’emigrazione è andata crescendo e tra il 2011 e il 2023 sono espatriati 550 mila giovani italiani, con un saldo negativo di 377 mila persone. Tra questi, la quota di laureati è aumentata ogni anno, arrivando nel 2023 al 43%. Di fronte alla diffusione in Italia di lavori precari e part time che colpiscono in misura prevalente i giovani, l’emigrazione per molti di questi è diventata una strada obbligata.

Le professioni. Se consideriamo la composizione dell’occupazione in base alle professioni, troviamo una forte polarizzazione tra categorie professionali considerate di alta qualità – le professioni intellettuali e scientifiche e i tecnici, caratterizzate da titoli di studio e salari più alti – e quelle a basso contenuto di competenze – gli addetti al commercio e ai servizi e i lavoratori non qualificati. Sono queste le professioni che registrano aumenti significativi negli ultimi dieci anni, mentre crescono molto meno i dirigenti, gli impiegati, gli operai specializzati, gli addetti al montaggio. Anziché registrare un aumento generale delle qualificazioni delle professioni, la struttura occupazionale del paese ha registrato una maggior polarizzazione, che riflette la crescita dei servizi a bassa qualificazione

I salari. Un mercato del lavoro con un’elevata precarietà e un diffuso part time tende a registrare anche una dinamica dei salari negativa. Tra il 2008 e il 2024 i salari reali medi in Italia sono diminuiti di 9 punti percentuali, mentre in Germania e Francia si è assistito ad un incremento, rispettivamente, dell’14% e del 5%. Secondo il rapporto OCSE sull’occupazione, l’Italia risulta essere il Paese che ha registrato la maggiore caduta dei salari reali nell’area OCSE.

La caduta dei salari reali è l’effetto congiunto di tutte le trasformazioni che abbiamo fin qui analizzato. Sul piano della struttura produttiva, la dinamica dei salari è stata colpita dallo spostamento dell’occupazione verso i servizi a bassa qualificazione e dalla mancanza di investimenti in nuove attività economiche. È opportuno ricordare che tra il 2010 e il 2019, prima della pandemia, gli investimenti fissi lordi in Italia sono caduti in termini reali di 8 punti percentuali, mentre sono aumentati del 16% in Francia e del 20% in Germania. In compenso la dinamica dei profitti continua a marciare nella direzione di una crescita costante a cui si accompagna anche quella dei dividendi per gli azionisti. Senza nuovi investimenti e attività economiche avanzate, con scarse innovazioni tecnologiche e organizzative, con dimensioni d’impresa sempre dominate da aziende piccole e piccolissime, con la crescente polarizzazione della composizione per professioni degli occupati, la produttività del lavoro in Italia ha avuto un lungo ristagno e gli spazi per gli aumenti salariali si riducono. Anche nelle attività manifatturiere – che andavano perdendo rilievo – le produzioni presenti in Italia sono scivolate in basso nelle catene del valore globali, concentrandosi su segmenti a basso contenuto innovativo e con limitata domanda di lavoro qualificato; i salari, di conseguenza, sono stati spinti verso il basso.

Sul piano del mercato del lavoro, i salari dipendono dalla domanda di lavoro delle imprese, dalla natura dei contratti di lavoro, dalla capacità di contrattazione dei sindacati. Con la forte diffusione di contratti a tempo determinato e part time – e con la moltiplicazione di centinaia di contratti di lavoro differenziati per categorie specifiche di lavoratori e lavoratrici – la tenuta dei salari si è indebolita, si è aggravata la polarizzazione salariale tra lavoratori stabili e precari, tra occupazioni più o meno qualificate, tra diverse tipologie di lavoratori e lavoratrici. La copertura dei contratti di lavoro si è ridotta e si sono moltiplicati i ritardi nei rinnovi dei contratti di categoria, con perdite rilevanti in termini di adeguamenti salariali, specie negli anni di elevata inflazione. In molti settori l’indebolimento del potere contrattuale del sindacato, anche per effetto della precarietà e frammentazione del lavoro, non è riuscito a evitare la caduta dei salari reali.

La sicurezza sul lavoro. Un aspetto fondamentale della qualità dell’occupazione riguarda la salute e la sicurezza sul lavoro. I dati Inail per l’industria e i servizi mostrano che il numero totale di infortuni sul lavoro è progressivamente diminuito fino al 2015 quando, in coincidenza con l’introduzione del 

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Jobs Act, si registra una battuta di arresto e gli infortuni restano a un livello costante, e addirittura aumentano dopo la fine della pandemia, per arrivare nel 2023 a 470 mila.

Gli infortuni mortali invece hanno avuto un andamento oscillante e nel 2023 hanno raggiunto i 1012 casi. Hanno registrato valori elevati nel 2010, a cui era seguita una diminuzione anche in seguito all’introduzione del D.Lgs. 81/08 e la sua effettiva messa a regime; la pandemia di Covid-19 nel 2020 ha portato a un aumento particolarmente elevato con oltre 1500 infortuni mortali.

Se guardiamo alle imprese in cui avvengono le morti sul lavoro, troviamo che due infortuni mortali su tre avvengono nelle imprese con meno di 50 addetti: nel 2023, su 1012 infortuni mortali in industria e servizi, 363 casi sono stati nelle imprese con meno di 10 addetti, 281 casi in quelle tra 10 e 49 addetti.

Considerando la tipologia contrattuale, l’incidenza degli infortuni è rilevante per tutte le tipologie di lavoro dipendente, oltre al lavoro interinale e in apprendistato. I lavoratori a tempo determinato registrano una maggiore esposizione al rischio rispetto ai dipendenti “standard”, come mostrano evidenze empiriche sia per l’Italia che per altri paesi. Le cause sono molteplici: la difficoltà nell’acquisizione di una cultura della sicurezza dovuta alla discontinuità contrattuale e professionale; la maggiore propensione ad accettare condizioni peggiori per mantenere il posto di lavoro; la difficoltà che i sistemi di prevenzione territoriali hanno ad intervenire in contesti di elevata precarietà e frammentazione dei percorsi lavorativi.

Gli stessi processi che hanno alimentato la precarizzazione del lavoro in Italia – in particolare dopo l’introduzione del Jobs Act – e l’impoverimento del sistema produttivo sono alla radice anche dell’incapacità delle imprese di ridurre – a partire dal 2015 – l’incidenza degli infortuni sul lavoro. Proprio l’insufficiente sicurezza sul lavoro – con mille morti sul lavoro ogni anno – rappresenta il segnale più drammatico del degrado della qualità dell’occupazione in Italia.

Conclusioni

I problemi del lavoro in Italia – specialmente se confrontati con quelli dei principali paesi europei – hanno radici profonde nel declino produttivo del paese, nei forti divari di genere e territoriali, nel ritardo nei livelli di istruzione, nella bassa produttività. Il risultato è stata la diffusione di lavoro precario e part time – che colpisce in maggior misura i giovani, le donne, le persone qualificate – e una dinamica dei salari che li ha visti diminuire in termini reali del 9% dal 2008 a oggi.

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Il Jobs Act, indebolendo le tutele del lavoro a tempo indeterminato e favorendo la diffusione di contratti precari e part time, è stato un elemento centrale per l’affermarsi di quello che – a dieci anni di distanza – possiamo individuare come un circolo vizioso tra lavoro precario, bassi salari, bassa produttività e bassa crescita. È questo uno dei meccanismi di fondo che ha alimentato il declino dell’economia italiana e l’aggravarsi delle distanze dai maggiori paesi europei.

I dati di questo Rapporto contribuiscono a spiegare perché i quesiti al centro dei quattro referendum sul lavoro dell’8-9 giugno 2025 sono importanti: affrontano alcuni dei problemi più gravi che vivono oggi le persone che lavorano.

Slide presentazione Jobs Act – Fondazione Di Vittorio



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