Con una media del 23% sulle merci provenienti dal resto del mondo, gli Stati Uniti hanno introdotto il regime tariffario più severo degli ultimi cento anni. Le conseguenze non si sono fatte attendere. I principali porti del Paese registrano un calo significativo nel traffico container: secondo il Bureau of Transportation Statistics, a febbraio il volume movimentato si è dimezzato rispetto a gennaio, un effetto combinato dell’entrata in vigore dei nuovi dazi e delle scorte accumulate dalle imprese nei mesi precedenti.
Rallentamento della domanda estera
Il rallentamento della domanda estera è già visibile anche nei dati macroeconomici. Come riporta il Wall Street Journal, nel primo trimestre del 2025 il Pil statunitense ha registrato una contrazione dello 0,3% su base annua: è la prima flessione dal 2022. Il calo è stato attribuito a un’impennata delle importazioni, innescata dalla corsa delle imprese ad anticipare gli aumenti tariffari. Questa dinamica ha contribuito ad ampliare il disavanzo commerciale, con ricadute immediate sui mercati finanziari: sia il Dow Jones sia l’S&P 500 hanno chiuso in flessione in risposta ai dati deludenti.
L’incertezza sulle politiche commerciali ha aggravato il contesto. Il Wall Street Journal osserva che il clima di instabilità pesa sulla fiducia di consumatori e investitori, alimentando il rischio di una recessione autoindotta. Un’eventualità che, secondo molti analisti, diventa sempre più concreta in assenza di un’inversione di rotta. In questo scenario si evidenzia un paradosso contabile: il rallentamento delle importazioni, pur migliorando temporaneamente il saldo commerciale nel secondo trimestre, non riflette un’espansione dell’economia reale. Al contrario, la contrazione della domanda interna e l’incertezza politica stanno erodendo le fondamenta della crescita.
Il crollo della fiducia dei consumatori
Secondo l’indice elaborato dall’Università del Michigan, la fiducia dei consumatori è crollata da 74 punti a dicembre a 52 ad aprile. Si tratta dei livelli più bassi dal 1990. Il sentiment riflette l’impatto dei recenti shock finanziari, della volatilità dei mercati e delle aspettative di inflazione alimentate dai dazi. Le imprese, da parte loro, hanno ridotto gli ordini e rallentato gli investimenti. Le tariffe più elevate colpiscono in particolare i beni cinesi, con punte fino al 145%. In teoria, un calo delle importazioni migliora il Pil, ma nel caso attuale le aziende avevano già anticipato gli acquisti, provocando uno squilibrio temporaneo. Secondo The Economist, la contrazione è coerente con le previsioni riviste al ribasso: per il 2025 si stima una crescita dell’1,8%, rispetto al 2,8% dell’anno precedente, a causa del deterioramento del contesto globale.
Il clima d’incertezza
Alcuni settori risultano particolarmente esposti. L’automotive, in primis. Il Washington Post riporta che le nuove tariffe potrebbero far salire i prezzi delle auto di migliaia di dollari e compromettere catene di approvvigionamento consolidate. Messico e Canada stanno già valutando misure di ritorsione, con potenziali ripercussioni su costi e disponibilità. Le difficoltà si estendono anche ai beni di consumo. Colossi come Procter & Gamble e PepsiCo stanno adeguando le strategie: la prima potrebbe aumentare i prezzi al dettaglio entro l’estate, mentre la seconda ha rivisto al ribasso le previsioni sugli utili annuali, citando il calo della spesa dei consumatori e il rincaro delle materie prime.
Anche Politico evidenzia come la strategia tariffaria dell’amministrazione Trump stia generando un clima di incertezza generalizzata. L’anticipo degli acquisti da parte delle imprese ha gonfiato artificialmente le importazioni, ampliando il deficit commerciale. Grandi aziende come General Motors e Delta Airlines hanno ritirato le guidance finanziarie a causa della volatilità. Diverse imprese hanno congelato gli investimenti e rallentato le assunzioni, in particolare nei settori legati all’import-export. Il rischio sistemico è chiaro: un rallentamento costruito politicamente.
L’economia statunitense ha già oltrepassato una prima soglia critica. Se vi sarà un secondo scivolone, lo si scoprirà nei prossimi mesi. Intanto, per la promessa una nuova “età dell’oro”, i margini di manovra si fanno sempre più stretti.
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