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Non c’è pace per il payback


C’è stato un momento in cui sentitissimo era il bisogno di sostenere il nostro Servizio Sanitario Nazionale.
E non soltanto eticamente.
Il sostegno di cui aveva bisogno era piuttosto di tipo economico.

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Le risorse, al solito, scarseggiavano ed il legislatore ha ritenuto di introdurre il fenomeno del c.d. payback.

Assurto agli onori della cronaca di recente, in realtà, tale meccanismo è stato introdotto per la prima volta dalla Legge Finanziaria del 2007 e finalizzato a consentire l’erogazione di risorse economiche alle Regioni a sostegno della spesa farmaceutica di loro competenza, all’insegna del contenimento e del controllo dei consumi in tale settore.

In buona sostanza, in virtù dell’introduzione di tale meccanismo, in caso di superamento del tetto della spesa farmaceutica nazionale, le aziende fornitrici sono tenute a ripianare l’eccedenza mediante versamenti alle Regioni di importi singolarmente stabiliti per ognuna di esse e calcolati, nel tempo, non più sulla base dei budget aziendali, ma su un sistema basato sulle quote di mercato.

Quindi, un tentativo di controllare e contenere la spesa pubblica sanitaria, prevedendo un confine di spesa per farmaci e dispositivi medici mediante una previsione normativa che evocava la contribuzione entro detto limite, da parte delle aziende fornitrici di tali prodotti in caso di superamento del tetto previsto, mediante una quota di restituzione.

Un sistema indiretto, quindi, per consentire alle Regioni di poter sforare il tetto di spesa.

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Nel 2015, l’art. 9-ter del d.l. n. 78 che lo prevede, sintetizza così il fenomeno: “nel caso in cui le aziende fornitrici di dispositivi medici non adempiano all’obbligo del ripiano di cui al presente comma, i debiti per acquisti di dispositivi medici delle singole regioni e province autonome, anche per il tramite degli enti del servizio sanitario regionale, nei confronti delle predette aziende fornitrici inadempienti sono compensati fino a concorrenza dell’intero ammontare”.

Successivamente, nel 2022 è stato aggiunto il comma 9-bis che per gli anni dal 2015 al 2018 ha espressamente previsto la procedura di determinazione dell’ammontare del ripiano a carico delle singole imprese.

Mentre nel 2023, il d.l. n. 34, all’art. 8 ha istituito un fondo statale da assegnare pro-quota alle Regioni che in questo triennio avessero sforato il tetto di spesa.

Queste norme hanno consentito alle imprese fornitrici di dispositivi di versare solo il 48% della rispettiva quota di ripiano, a condizione di rinunciare ad ogni contestazione in giudizio dei provvedimenti relativi all’obbligo di pagamento.
Da qui, il redde rationem che prima o poi sarebbe arrivato come, in effetti, è arrivato: più di un miliardo di euro che le aziende devono alle Regioni per il periodo dal 2015 al 2018.

Una manna dal cielo per gli enti, una disdetta per le imprese che le Regioni con appositi provvedimenti hanno provveduto a richiedere loro e che esse hanno, prontamente, impugnato davanti al TAR anche sollevando questione di legittimità costituzionale sulle quali la Corte ha precisato che, con specifico riferimento al periodo 2015-2018, è il legislatore ad aver disciplinato appositamente la materia del ripiano dello sforamento dei tetti di spesa.

Più precisamente, la Corte costituzionale con ben due sentenze, si è pronunciata in merito.
 Con la n. 139 del 22 luglio 2024 – emessa a seguito di ricorso della Regione Campania – si è occupata delle disposizioni di cui al d.l. 34 del 2023 statuendone l’incostituzionalità nella parte in cui hanno condizionato la riduzione dell’obbligo a carico delle imprese di versare il 48% alla rinuncia preventiva al contenzioso che è stato, così, esteso anche a quelle che a tale obbligo non si erano assoggettate.

Con l’altra, la n. 140 di pari data – dietro rimessione del TAR del Lazio – ha dichiarato l’infondatezza delle questioni di costituzionalità sollevate con riferimento all’art. 9-ter del d.l. n. 78 del 2015 che delimita la previsione favorevole agli enti regionali al periodo 2015-2018 sancendo che “in relazione a tale periodo, il legislatore ha dettato una disciplina apposita per il ripiano dello sforamento dei tetti di spesa, e le Regioni, con propri provvedimenti, hanno chiesto alle imprese le somme da esse dovute”.

La Corte costituzionale con queste due sentenze ha statuito, quindi, che il meccanismo del payback “non risulta né irragionevole, né sproporzionato” perché è stato ritenuto “un contributo solidaristico, correlabile a ragioni di utilità sociale, al fine di assicurare la dotazione di dispositivi medici necessaria alla tutela della salute in una situazione economico finanziaria di grave difficoltà” sancendo, altresì, che il trattamento di favore del 48% si applichi a tutte le aziende non soltanto a quelle che hanno assunto l’impegno inziale di rinunciare in via preventiva al contenzioso giudiziario.

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La non irragionevolezza ha fondato le proprie basi sul non rilevato contrasto con l’art. 41 – che tutela, come libera, l’iniziativa privata che non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana – e con la definizione dell’ammontare che le imprese devono per il periodo di riferimento 2025-2018, quale “contributo solidaristico”, come avanti definito.
La non sproporzione, invece, è stata ritenuta sussistente – dopo il riconoscimento della riduzione del 48 % incondizionatamente a tutte le imprese ad opera della precedente sentenza – perché non in contrasto con l’art. 23 della Costituzione per l’imposizione di prestazioni patrimoniali.
Ciò, vieppiù rafforzato dall’affermazione dell’irretroattività della disposizione censurata in quanto la succitata norma del 2022 “si è limitata a rendere operativo un obbligo di ripiano a carico delle imprese fornitrici, senza influire, in modo costituzionalmente insostenibile, sull’affidamento che le parti private riponevano nel mantenimento del prezzo di vendita dei dispositivi medici”.

Tanto da portare Confindustria a ritenere che ciò causerà una “crisi irreversibile” dal duplice aspetto: da un lato, l’impossibilità per molte aziende di sostenere il saldo richiesto con correlative misure di riduzione del personale attraverso cospicui licenziamenti e dall’altro, l’impossibilità di continuare a fornire i dispositivi per il blocco dell’attività con ripercussioni proprio sull’unico aspetto che merita considerazione massima, oltre a incarnare la vera ratio della legge istitutiva del 2015, ovvero la tutela della salute dei pazienti.

Il paventato rischio di fallimento per oltre 2.000 aziende italiane con correlativa perdita di 200.000 posti di lavoro ha indotto le PMI sanità a chiedere al governo la convocazione, in tempi brevi, di un tavolo di crisi.

Saranno solo le trattative che da esso scaturiranno a dirci quali dei due contendenti avrà a dolersi della peggior sorte, posto che in gioco è il benessere della collettività che, però, assume una differente configurazione a seconda del punto di vista adottato.
Se, infatti, lo si guarda da quello delle imprese, la sofferenza è duplice perché accanto alla sussistenza propria delle stesse PMI, si ha il timore che una parte cospicua di lavoratori, perché licenziati, andrebbero ad ingrossare le fila dei disoccupati con correlativo aggravio per il bilancio dello Stato (quantomeno per gli assegni o le indennità da corrispondere); se lo si guarda da quello delle Regioni, a soffrirne sarebbero i bilanci propri, endemicamente non proprio floridi.

In ogni caso il danno sarebbe all’intera collettività amministrata la quale non potrebbe più giovarsi di un’assistenza medica di tutto rilievo come finora fatto.

Di questi giorni è il rigetto da parte del TAR del ricorso contro il payback sui dispositivi medici presentato dalle Aziende per la ritenuta illegittimità – stimata assolutamente penalizzante – della norma che prevede il versamento di oltre un miliardo di euro per lo sforamento dei tetti di spesa sanitaria nel periodo 2015-2018, che ora minacciano l’appello al Consiglio di Stato.
Ricorso presentato nonostante la Corte costituzionale si fosse già pronunciata in merito, riconoscendo l’istituto in questione, come detto, “legittimo e non sproporzionato” perché valutato quale “contributo di solidarietà” necessario per sostenere il SSN il quale versava in una grave situazione di sofferenza economico-finanziaria che non consentiva a Stato e Regioni di far fronte con pubbliche risorse alle spese sanitarie dell’intera popolazione.

Le pronunce del giudice delle leggi sono state riprese dal TAR nel passo della sentenza ove si legge che “come chiarito dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 140 del 2024, è rimasto del tutto indimostrato, anche nel caso di specie, che il c.d. payback abbia ridotto eccessivamente i margini di utile che le imprese coinvolte nel relativo meccanismo intendevano ed hanno conseguito dall’esecuzione degli appalti di fornitura di dispositivi medici”.

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E con ciò i problemi preesistenti sono rimasti del tutto inalterati, atteso che allo scadere del termine legislativamente previsto, le Regioni hanno richiesto l’ammontare di cui erano “creditrici” a motivazione dell’assentita partecipazione da parte delle imprese al ripiano dello sforamento del tetto di spesa da parte delle Regioni.

Il ricorso al TAR delle Aziende non ha sortito alcun effetto (per loro) positivo, in quanto il giudice amministrativo ha riconosciuto la fondatezza della norma per il rinvenimento di tre punti fondamentali, ovvero che le imprese erano consapevoli sin dal 2015 della normativa sul payback e ben potevano organizzarsi, magari accantonando le somme che sarebbero state loro richieste a tale titolo in futuro; che il meccanismo non incide formalmente sugli appalti pubblici, anche se ne altera la sostenibilità economica ed, infine, con il rilevato difetto di giurisdizione, atteso che le contestazioni contro i provvedimenti regionali vanno presentate non al giudice amministrativo, bensì a quello ordinario.

Ha, altresì, aggiunto il TAR che è “indimostrato” quanto lamentato dalle Aziende, ovvero che ad erodere il loro bilancio sia stato proprio il payback, così come recriminato e fatto valere in sede di contenzioso giudiziario, posto che “con specifico riferimento alla fissazione del tetto di spesa regionale, su cui si appuntano le doglianze della società ricorrente, deve ricordarsi che era già nota la quantificazione del tetto di spesa nazionale (fissato, a decorrere dal 2014, al 4,4% del fabbisogno sanitario nazionale standard). Questa misura è stata, poi, confermata per tutte le Regioni, indistintamente, nel 2019”.

Tanto hanno ritenuto i giudici amministrativi in risposta alle doglianze delle Aziende che lamentano ora, quali sgradevoli conseguenze di una tale decisione, in via immediata, la perdita di numerosi posti di lavoro, attesa la difficoltà di far fronte alle spese di gestione e di personale e, conseguentemente, la drastica riduzione dei servizi sanitari alla popolazione.
Ma, a fronte di tali doglianze di parte, i giudici amministrativi hanno risposto con impeccabili motivazioni giuridiche che stridono con qualsivoglia motivazione in fatto proposta, atteso che le imprese interessate “si dovevano ritenere già edotte, ex ante, dell’alea e dei rischi contrattuali insiti nella fornitura dei dispositivi medici, proprio sulla base delle norme già vigenti, e chiare nella loro formulazione, venendo in considerazione possibili rischi derivanti dalla (pur sempre prevedibile) fornitura in eccesso dei dispositivi medici rispetto al tetto di spesa individuato dal legislatore”.

Il che significa quasi un riconoscimento di superficialità da parte delle imprese che avrebberodovuto considerare, in un’ottica di ordinaria diligenza, le dinamiche del mercato di riferimento, caratterizzato da simile previsione e, di conseguenza, ben avrebbero potuto e dovuto orientare i propri comportamenti all’insegna della prudente gestione.
Ora, quindi, che alea iacta est, il carattere immediatamente esecutivo della sentenza comporta che l’Amministrazione debba rispettarne il dettato, dandole esecuzione mediante l’adozione di tutti gli atti e i comportamenti necessari ad attuare quanto in essa disposto, anche se non è ancora passata in giudicato.

Ciò chiaramente non impedisce agli interessati di adire il giudice di secondo grado e di chiedere la sospensione dell’esecuzione laddove si dimostri, la sussistenza di un danno grave ed irreparabile nelle more della decisione definitiva del giudice d’appello.
Le granitiche motivazioni espresse dal giudice – prima costituzionale, ora amministrativo – a sostegno delle decisioni adottate non lasciano molti margini per presagire un auspicato ribaltamento in appello della pronuncia, ma su un aspetto non si può non concordare con le sigle di rappresentanza delle aziende, ovvero che per “garantire la sostenibilità del sistema sono necessari cambiamenti strutturali e una governance del settore che superi il payback e preveda tetti di spesa adeguati; una visione sistemica del comparto che comprenda a pieno le problematiche industriali; una programmazione sanitaria per garantire l’allocazione efficiente delle risorse; un sistema che garantisca l’accesso rapido alle innovazioni che migliorano realmente la qualità della vita dei pazienti. Urge un intervento immediato del MEF”.

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L’auspicato intervento del MEF a seguito del tavolo di lavoro che sembrerebbe essere già stato avviato per individuare una soluzione politica al payback, se lascia ben sperare alle Aziende in affanno, non lascia intravedere tempi brevi.
Ma soprattutto quid iuris per il passato?

C’è, medio tempore, soltanto da augurarsi che quanto paventato dalle Aziende a motivo del loro disappunto – ovvero la compromissione del SSN – non si concretizzi perché davvero non possiamo permetterci che migliaia di pazienti subiscano le conseguenze dirette della mancanza di dispositivi medici “dai ventilatori polmonari agli stent coronarici, dalle protesi ortopediche fino ai dispositivi per la dialisi”, come ci viene segnalato dal vertice delle Organizzazioni di settore  che si auspicano un rapido e fattivo intervento del Governo anche per scongiurare il fallimento di oltre 1500 aziende accettando la proposta delle associazioni di categoria.

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