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Doppio colpo a Meloni: no dell’Ue alla proroga del Pnrr e al suo uso per le armi


La «credibilità» di un governo, quella rivendicata ieri nel «premier time» alla Camera da Giorgia Meloni, è un gioco sottile tra l’illusione e la disperazione. Ieri è stata notata la difficoltà della presidente del Consiglio a distinguere lo «spread», cioè la differenza tra i rendimenti di due titoli di Stato come il Btp italiano e il Bund tedesco, dal rating degli stessi titoli secondo le agenzie specializzate. Meloni ha confuso l’una con l’altro, rendendo palese l’illusione sul quale si regge la stabilità finanziaria rivendicata dal suo governo. Si parla di qualcosa che non si conosce e la si usa per auto-definirsi «affidabili» perché la «stabilità è la nostra prima riforma economica». La stabilità è in realtà il vicolo cieco in cui si è andato a cacciare il suo governo.

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Il ministro dell’Economia Giorgetti, seduto ieri accanto a Meloni, ha avuto molte ragioni per scuotere la testa, ripreso in diretta. E non era solo una questione di «spread».
La notizia è di ieri, ed è una bastonata alle proposte avanzate dallo stesso Giorgetti all’Ecofin, la riunione dei suoi omologhi. La Commissione Europea, nella persona del commissario all’Economia Valdis Dombrovskis e nel fidato (da Meloni) vice-presidente delegato al Pnrr Raffaele Fitto, hanno ribadito che non è possibile prorogare la scadenza del Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) oltre giugno 2026 e che i soldi del Pnrr non possono essere usati per rimpinguare gli investimenti nel riarmo europeo. Questa conferma (la smentita è stata data il 31 marzo scorso da Dombrovskis e da Fitto) non è solo un colpo alle disperate speranze di Giorgetti che dall’aprile 2024 sa che il Pnrr rischia il fallimento. È la prova che la battaglia, presentata come «epocale» da Meloni, di portare Fitto a Bruxelles non è servita a riaprire il dossier. Il Pnrr finirà nei tempi previsti. E il governo dovrà fare i conti con un fallimento.

Fitto ha ribadito che si sta provando di tutto nel gioco delle tre carte. Per esempio a trasferire i progetti del Pnrr ai fondi per la coesione. L’Italia, in particolare, è riconosciuta per la sua incapacità di spendere anche questi ultimi, ma rimpinguarli con altri 14 miliardi (forse) oggi sembra un colpo di genio.

Dombrovskis, invece, ha spiegato la ragione per cui non è possibile usare i soldi del Pnrr per evitare di aumentare il debito pubblico e finanziare la spesa militare. L’ipotesi è stata valutata dalla Commissione Ue prima di lanciare il piano «Riarmare l’Europa» (oggi ribattezzato con l’eufemistico «Prontezza 2030» perché troppo impopolare). Ma è stata scartata perché la modifica del regolamento dello «Strumento per la ripresa resilienza» che finanzia il Pnrr avrebbe richiesto l’unanimità degli Stati membri. E si sa che, in particolare, la Germania e i suoi satelliti non intendono sentire ragioni sulla possibilità di creare un altro fondo per le risorse comuni. Ogni Stato deve pagarsi le spese con le proprie risorse. Quelli, come l’Italia, che non hanno spazio fiscale per finanziarle dovranno tagliare la spesa sociale. E dare la differenza ai militari. Paesi, come la Germania, che hanno un debito pubblico che è meno della metà di quello italiano possono investire 500 miliardi in cannoni e infrastrutture.

La «credibilità» del governo Meloni è direttamente proporzionale alla sua disperazione. Quando la Nato imporrà una spesa militare al 3,5% del Pil, probabilmente entro il 2032, ogni anno si dovranno trovare più risorse, 15, poi 20 miliardi all’anno in più. E non è chiaro dove Meloni & Co. prenderanno i 10 miliardi necessari per arrivare al 2% della spesa militare che danno per certa nel 2025.

L’Europa è sempre stata un continente popolato da fantasmi. In tempi non recenti era quello del comunismo. Ieri, da fantasma si è vestito Riccardo Magi per denunciare il silenzio sui referendum. E poi c’è l’Europa-fantasma di Mario Draghi. Ieri era a Coimbra, in Portogallo, dove è tornato a pronunciare le sue «prediche inutili». Sono necessari gli «Eurobond» per «garantire soprattutto la difesa» che «contribuirà a una crescita economica più elevata». Bisogna cambiare le politiche fiscali restrittive e quelle salariali oggi sottoposte a una «repressione» che ha «frenato i consumi e la domanda interna». L’Europa «reale» sta facendo l’opposto, i risultati li vedono Meloni e Giorgetti anche se parlano di altro.

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