Ogni volta che il mondo si trova a vivere momenti di tensione o di crisi, succede che le imprese cercano una giustificazione alla loro perdita di fatturato. Così si incolpano le guerre, il terrorismo, le pandemie, i crack finanziari oppure i dazi, come quelli che gli Stati Uniti stanno minacciando di applicare a tanti prodotti del Made in Italy.
Il problema, però, è che spesso si resta fermi. Si subisce la situazione senza reagire e senza cambiare il proprio modo di fare impresa, in particolare quando si parla di come si costruisce un prezzo per esportare un prodotto all’estero. Si tende a pensare che si possa solo alzare o abbassare, senza una vera strategia. E invece c’è tanto che si può fare.
Basta partire da una domanda semplice: se gli Usa mettono un dazio del 20% su un nostro prodotto, significa per forza che il prezzo per il cliente americano aumenterà del 20%? La risposta è no, perché quel costo può essere gestito in diversi modi lungo tutta la catena del valore.
Può farsene carico, in parte o del tutto, l’importatore americano, che lo assorbe nel suo margine. Oppure può farsene carico l’imprenditore italiano. O ancora, si può decidere di aumentare il prezzo finale e farlo pagare direttamente al cliente. Ma per fare la scelta giusta bisogna capire una cosa fondamentale: quanto è sensibile il nostro cliente al prezzo? Se è disposto a spendere di più per avere proprio quel prodotto, oppure se, al primo aumento, preferisce cambiare marca o rinunciare all’acquisto.
Questo, in economia, si chiama elasticità della domanda e, in parole semplici, vuol dire: se io alzo il prezzo di un euro, vendo ancora oppure no?
Se vendo un vino di altissima gamma, come un Brunello o un Barolo, molto probabilmente posso anche permettermi di aumentare il prezzo. Chi compra quel vino non lo fa solo per bere, ma perché ama il brand, la storia, la qualità. E difficilmente lo cambierà per risparmiare qualche dollaro. Ma se vendo un prodotto da scaffale, una macchina da caffè, o ancora una mozzarella senza particolari elementi distintivi, allora la questione è diversa. Il cliente può facilmente trovare un’alternativa più economica, magari prodotta negli Usa o in Messico. In quel caso, se aumento il prezzo, rischio di perdere vendite. E quindi potrebbe essere più intelligente collaborare con il distributore e assorbirsi insieme il dazio, oppure accettare margini più bassi per mantenere il prezzo competitivo.
C’è anche un altro scenario: quello in cui il cliente proprio non accetta aumenti di prezzo causati dai dazi e smette di comprare. In questo caso, scaricare tutto il costo sul consumatore sarebbe un errore potenzialmente fatale. Meglio allora prendersi il peso in casa propria e non perdere il cliente.
Naturalmente, ogni prodotto è diverso, ogni mercato è diverso e ogni impresa ha una storia a sé. Per questo è fondamentale che chi esporta, soprattutto il piccolo imprenditore, si metta a studiare come si comporta il cliente quando cambia il prezzo, e che inizi a simulare scenari con dazi diversi per capire in anticipo cosa conviene fare. Occorre, in sintesi – e per tale motivo vi invito a leggere quanto scrissi al riguardo – simulare uno scenario che oggi non esiste e non fare, così come di solito avviene per i piccoli imprenditori, il semplice esercizio di immaginarsi un domani uguale a ieri.
Chi oggi esporta prodotti italiani deve sapere che gli imprenditori più a rischio sono quelli di fascia medio-bassa nel settore agroalimentare, perché sono più facilmente sostituibili e spesso il prezzo è l’unica vera leva di vendita. Ma anche i macchinari industriali, che oggi hanno grande successo negli Usa, potrebbero soffrire in futuro, se emergono concorrenti più aggressivi. Allora, la vera domanda è: cosa può fare oggi un piccolo imprenditore per non subire questa situazione, ma anzi trasformarla in un’occasione per rafforzare il proprio business?
La prima cosa è cambiare approccio. Smettere di aspettare la domanda e cominciare a generarla. Diventare un brand attivo, che si fa conoscere, che racconta una storia, che crea relazioni solide nel mercato di destinazione. Poi bisogna conoscere i propri prodotti, capire quali sono più forti e quali più deboli, simulare l’impatto di dazi diversi e decidere come comportarsi in ogni scenario.
Serve anche lavorare sul valore percepito del proprio marchio. Se il prodotto non è conosciuto, bisogna investire sulla comunicazione, sul packaging, sull’unicità. Magari creando una limited edition oppure raccontando l’artigianalità, la sostenibilità, il legame con il territorio. E infine è fondamentale costruire relazioni serie nel mercato americano. Trovare partner, distributori, agenti e clienti che credano in noi e che possano aiutarci a superare insieme anche momenti complicati come questo.
I dazi non sono la fine del gioco. Possono essere invece un momento per fermarsi, riflettere, ripensare il proprio modello e rilanciare il business con più consapevolezza, più strategia e più forza. È proprio nei momenti di difficoltà che si vede la stoffa dell’imprenditore. Quello vero non cerca scuse, ma cerca soluzioni.
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