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Cosa succederà al commercio tra Italia e Canada


L’anno scorso il Bel Paese ha venduto in Canada merci per 12,3 miliardi di CDN (dollari canadesi), su 15,5 miliardi di interscambio. Il surplus italiano è significativo, ma è bilanciato dalla complementarietà strategica delle due economie: il Canada guadagna dall’export di risorse energetiche e materie prime, mentre l’Italia fornisce beni ad alto valore aggiunto (auto, macchinari, lusso) che non minacciano settori chiave canadesi.

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C’è uno squilibrio meno importante negli investimenti diretti. Il Canada ha, in Italia, uno stock di circa 12 miliardi di CAD: Enbridge ha una partecipazione nel gasdotto TAP, che trasporta gas naturale dall’Azerbaigian (via Grecia e Albania) fino a Melendugno (Puglia), il fondo pensione canadese CPPIB, uno dei più grandi al mondo, è nell’azionariato di Atlantia (gruppo che controlla Autostrade per l’Italia) e di Aeroporti di Roma (ADR), mentre Shopify e OpenText hanno sedi in Italia.

L’Italia, ha sua volta, ha investimenti diretti in Canada per circa 10 miliardi CAD. Protagonisti Stellantis, Enel Green Power e Leonardo, ma anche Ferrero, Lavazza, Barilla e Luxottica, che possiede LensCrafters e Pearle Vision, due catene retail con centinaia di punti vendita nel Paese della Foglia d’Acero.

I dati dell’ICE (Istituto per il Commercio Estero), della SACE (Società italiana per l’assicurazione del credito all’export e il sostegno alle imprese nei mercati internazionali) e di Confindustria Canada dipingono un quadro di integrazione forse poco noto al pubblico italiano: le aziende del Bel Paese che hanno rapporti commerciali con il Canada (sottoforma di export, joint venture, filiali) sono 13 mila, e circa 500-600 hanno stabilimenti o sedi nel Paese della Foglia d’Acero.

Il Canada è il 2° mercato extra-UE per l’Italia (dopo gli USA), con un export che l’anno scorso è cresciuto dell’8%, il doppio della media europea. Oltre 65mila posti di lavoro dipendono o sono strettamente legati alle esportazioni italiane in Canada.

Relazioni economiche solide, dunque, cui il CETA (Comprehensive Economic and Trade Agreement) ha sicuramente dato un forte impulso: il 98% delle merci europee esportate in Canada beneficia di dazi pari a zero e questo ha reso i prodotti italiani più competitivi rispetto ai concorrenti non europei. Dal 2017, anno della implementazione provvisoria dell’accordo, l’interscambio commerciale tra i due Paesi è cresciuto del 60%, mentre le esportazioni italiane verso il Canada sono aumentate del 37%, in particolare nei macchinari (+25%) e nel settore enologico e caseario (+50%). Il CETA, tra l’altro, consente alle aziende italiane di partecipare agli appalti pubblici canadesi, un mercato che vale circa 100 miliardi di CDN all’anno.

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A oggi, però, l’accordo non può ancora far valere tutte le sue potenzialità, visto che l’Italia non l’ha ancora ratificato. Il cahier des doléances è certamente corposo: Coldiretti e altri gruppi temono la concorrenza dei prodotti canadesi, in particolare  per il grano e la carne bovina, considerati meno regolamentati, con OGM, ormoni nella carne e glifosato nei cereali sul banco degli accusati. Ad altri non piace il meccanismo arbitrale di risoluzione delle dispute tra investitori-Stati, visto come uno “svuotamento” della sovranità nazionale, mentre per  Cgil e movimenti no-global il CETA è una minaccia per i diritti dei lavoratori e l’ambiente. Anche il settore dell’acciaio è preoccupato perchè teme l’ingresso di prodotti canadesi a basso costo grazie ai sussidi energetici.

Per molti dei problemi elencati le soluzioni esistono, ma in più c’è anche un’opportunità geopolitica: il caos prodotto dai dazi di Trump dovrebbe imporre una revisione pragmatica della posizione italiana sul CETA. Tutelare l’agricoltura italiana, per esempio, si può, magari escludendo una volta per tutte e con clausole vincolanti, i prodotti e i processi controversi. Si può proteggere meglio nel testo del CETA il Made in Italy con la tutela del DOP/IGP, anche se il Canada ha già riconosciuto 41 denominazioni italiane. Si può sostituire il sistema arbitrale con un tribunale permanente trasparente, come ha già proposto la UE.

Quello che è certo è che nascondere la testa sotto la sabbia fa perdere all’Italia voce in capitolo sulle future modifiche del CETA e crea un vantaggio per Bonn, che l’ha già ratificato.

L’Italia, insomma, può e deve attivarsi al più presto, tanto più se si considera che una guerra commerciale, ma anche una pace armata, tra Stati Uniti e Canada potrebbe far aumentare del 15-20% le esportazioni italiane verso Ottawa.  La storia insegna, o almeno suggerisce: la guerra dei dazi tra USA e Cina, in passato, ha fatto crescere del 5-15% le esportazioni dei fornitori terzi (UE, Messico, Vietnam). E il Canada ha detto esplicitamente che farà di tutto per non trovarsi mai più nella stessa posizione di dipendenza dagli USA.

Un obiettivo certamente ambizioso, non nuovo, ma che fallì negli anni ’60 e negli anni ’70 quando Ottawa provò a far comprare ai Canadesi i frigoriferi e le auto inglesi, senza successo, se non altro per la loro discutibile qualità.

Oggi le cose potrebbero andare diversamente e il dettaglio delle importazioni dall’America è una bussola per capire in quali settori l’Italia può dire la sua. Nel 2023 il Canada ha importato dagli USA merci per 460 miliardi di USD: 60 miliardi in veicoli e ricambi per auto, 50 miliardi per macchinari, 30 miliardi in petrolio ed energia, 25 miliardi in plastica, prodotti chimici, prodotti farmaceutici e altri 25 miliardi in prodotti dell’agroalimentare.

Se anche solo il 5-10% delle importazioni dall’America fosse “dirottato” verso altri partner commerciali, l’Italia potrebbe “catturare” fino a 3 miliardi di valore, con un aumento del 15-20% rispetto agli attuali 12 miliardi di CDN di esportazioni annuali verso il Canada.

Le aree di cooperazione economica sono numerose e hanno un elevato valore strategico. In materia di energia, per esempio, il Canada ha di fronte delle scelte “esistenziali”.

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Da un lato, il GNL canadese costa circa il 15-25% in più rispetto a quello americano per il mercato europeo, a causa delle maggiori spese di trasporto interno e della necessità di sviluppare nuove infrastrutture per portare il gas dalla zona di produzione alle coste orientali canadesi e poi in Europa. I nomi in prima linea per partecipare a questi progetti sono quelli di  Tenaris, Saipem, Snam e Fincantieri, già presenti sul mercato canadese.

Diventando il gateway per il GNL canadese in Europa, l’Italia potrebbe dare vita a un corridoio energetico da 10 miliardi di dollari all’anno entro il 2030, coprendo il 5-10% del suo fabbisogno. Tanto più considerando che il GNL proveniente da Kitimat, British Columbia, attraverso il Canale di Panama, nonostante il percorso più lungo, potrebbe raggiungere l’Italia (e il Mediterraneo) più velocemente rispetto al GNL statunitense proveniente dalla costa del Golfo (Louisiana/Texas) e diretto verso il Nord Europa, grazie a tempi di carico più brevi e una minore congestione nei terminali di scarico del Mediterraneo rispetto a Rotterdam o Zeebrugge.

Persino la raffinazione del greggio pesante canadese in Italia potrebbe diventare un’opzione se la trade war globale dovesse continuare e i prezzi del petrolio dovessero lievitare. Il Gruppo Saras, per esempio, ha nell’impianto di Sarroch, in Sardegna, una delle poche raffinerie d’Europa ottimizzate per la lavorazione del greggio pesante come quello estratto in Canada. Una capability già testata nel 2014 e che è tornata d’attualità dopo l’invasione russa dell’Ucraina. L’infrastruttura di raffinazione italiana in generale è ben posizionata per gestire questo tipo import, con diverse raffinerie situate lungo la costa mediterranea che ricevono il greggio direttamente via nave.

Certo, servirebbe una volontà politica, magari nella forma di un’attività di lobby con la UE per far classificare il petrolio canadese come “amichevole” e farlo esentare dalla Carbon Border Tax, mettendo sul piatto gli investimenti dell’ENI per la realizzazione in Alberta di un hub CCUS, la sigla che indica le tecnologie per la cattura e lo stoccaggio nel sottosuolo della CO₂ emessa dal settore industriale. Fantapolitica? Forse, come era fantapolitica l’idea, oggi realtà, che l’Europa potesse trovarsi un giorno tra le ganasce dell’America di Trump e quelle della Russia di Putin.

Dall’altro lato, soprattutto ora che i Liberali sono andati al Governo, il Paese che è stato la culla di Greenpeace continuerà a mantenere i suoi impegni sulla decarbonizzazione.

(2. continua; la prima parte si può leggere qui)

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