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Sicurezza sul lavoro: l’urgenza di un cambiamento possibile.


in Giurisprudenza Penale Web, 2025, 5 – ISSN 2499-846X

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La drammatica distanza tra realtà e princìpi.

Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, in occasione della festa del Primo Maggio di quest’anno, l’ha detto con lucidissima chiarezza: “Quella dei morti del lavoro è una piaga che non accenna ad arrestarsi e che, nel nostro Paese ha già mietuto, in questi primi mesi, centinaia di vite, con altrettante famiglie consegnate alla disperazione. Non sono tollerabili né indifferenza né rassegnazione”.

Eppure, la nostra Carta costituzionale volge in direzione del tutto opposta a tale terribile strage; lungi dall’echeggiare come vuota petizione di principio, l’articolo 1 della Costituzione Italiana costruisce le fondamenta della nostra Repubblica: L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro. Ancora, l’articolo 4: La Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendono effettivo questo diritto. L’articolo 32, poi: La Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e garantisce cure gratuite agli indigenti.

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La Costituzione incardina come pietre miliari della costruzione Repubblicana, tra gli altri, il lavoro e la salute, diritti fondamentali, inviolabili.

Da ciò, consegue una normativa vigorosa in tema di salute e sicurezza sul lavoro, nonché una prolifica casistica giurisprudenziale, che contribuisce a rafforzare il quadro regolamentare.

Perché, dunque, l’Italia gode dell’ignobile primato di essere tra i Paesi Europei con il maggiore tasso di morti sul lavoro? Perché, nella nostra terra, lavorare uccide, invece che concorrere al “progresso materiale o spirituale della società” (Art. 4, Cost.)?

La situazione attuale in Italia concernente la sicurezza sul posto del lavoro è a dir poco drammatica: i dati relativi ai decessi e agli infortuni sul lavoro parlano da sé.

Stando ai dati pubblicati dall’Eurostat relativi agli incidenti sul lavoro nel 2022, ad oggi i più recenti, in Europa, il tasso di incidenti mortali sul lavoro è di 1.66 per 100.000 lavoratori, mentre in Italia, raggiunge la cifra di 2.03 (tale indice si calcola in base al rapporto tra il numero di incidenti e il numero di persone occupate; rapporto Eurostat 2022 e relazione Inail 2025). In base alla relazione annuale Inail del 2023, l’ultima disponibile, nel 2022, in Italia si sono verificati 1.268 decessi sul lavoro, cifra che ha portato la Nazione ad occupare il secondo posto nella classifica dei paesi europei con più incidenti fatali sul lavoro, superata soltanto dalla Francia (Eurostat). Malgrado la situazione concernente gli infortuni mortali sul lavoro, indubbiamente allarmante, messa in luce dall’Unione Europea, è bene sottolineare che diverso è il caso degli infortuni non mortali, in relazione ai quali l’Italia, nonostante la pandemia, si è sempre mantenuta al di sotto della media UE (rapporto Eurostat, 2022; relazione annuale Inail 2023).

In ogni caso, i trend nazionali non sembrano di certo distinguersi per virtuosismo.

Anche se nel 2023 le denunce relative a incidenti fatali sul lavoro sono state 1.041, con un calo, quindi, rispetto al 2022, il decremento è da ritenersi soltanto apparente, poiché nel corso del 2022 il Paese ancora faceva i conti con i lasciti della pandemia Covid 19. Nel 2024, infatti, il numero delle denunce presentate per infortuni fatali sul lavoro è aumentato di nuovo del 4.7%, raggiungendo una quota di 1.090 morti (relazione Inail 2025), ed eliminando ogni possibile dubbio su un’eventuale inversione di tendenza nel periodo post-pandemico.

La lettura di queste drammatiche sequenze di dati porta necessariamente ad interrogarsi sul perché perseveri, da noi, una tale tragedia. Perché, nonostante da più parti si assista allo sviluppo tecnologico, alla crescita digitale, all’evoluzione futuristica dell’intelligenza artificiale, su un tema così fondamentale e così primario come la sicurezza sul lavoro siamo, purtroppo, rimasti anni luce nel passato.

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Una risposta superficiale e approssimativa potrebbe gridare a gran voce contro l’eccessiva indulgenza del sistema giudiziario, pronto a perdonare i potenti e a bastonare i più deboli, a giustificare le noncuranze dei datori di lavoro e a ignorare le sofferenze dei lavoratori, invocando l’irrogazione delle più severe pene sui responsabili di questa strage.

Le cose, però, non stanno proprio così.

 

Uno sguardo al dato normativo

L’impianto legislativo giuslavoristico, nel nostro Paese, è tutto fuorché accondiscendente verso i datori di lavoro o sguarnito di tutele verso i lavoratori. Il tessuto normativo è invero complesso e articolato, rafforzato dal supporto di fonti sovranazionali e intrecciato con le discipline più varie. Eretto sull’inossidabile pilastro degli articoli 1, 4 e 32 della Costituzione, il nostro ordinamento, quando si tratta di sicurezza sul lavoro, non lascia troppo spazio a compromessi.

Tramite il ricorso – tutto fuorché timido – allo strumento punitivo, quindi, l’ordinamento colpisce con la sanzione penale e amministrativa un vastissimo panorama di condotte, reggendosi su un’architettura normativa che è stata da alcuni correttamente definita “piramidale”. Al vertice di tale piramide prendono posizione i delitti colposi di omicidio (art. 589 c.p.) e lesioni (art. 590 c.p.), in grado anche di innescare la responsabilità amministrativa dell’ente ex art. 25-septies d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231. Seguono, poi, i delitti di pericolo, come la rimozione od omissione dolosa di cautele contro gli infortuni sul lavoro (art. 437 c.p.) e l’omissione colposa di cautele o difese contro disastri o infortuni sul lavoro (art. 451 c.p.). In misura più attenuata, poi, il d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 disegna un vasto schema punitivo ad ampio respiro, fondato principalmente su figure di reato contravvenzionali (se ne contano diverse centinaia), che cercano di sanzionare il comportamento dei soggetti coinvolti nel lavoro d’impresa prima che sfocino in più gravi delitti lesivi della persona. Alla base della piramide, in forma ancora più mitigata e non penale, si collocano gli illeciti amministrativi, così come previsti dal citato d.lgs. n. 81/2008.

Tale articolata architettura normativa trova poi rafforzamento sul piano comunitario. A partire dalla Direttiva 89/391/CEE del Consiglio, del 12 giugno 1989, l’Europa ha mosso passi concreti verso l’armonizzazione normativa della tutela della salute e della sicurezza dei lavoratori, con segnato riguardo verso l’importanza, per il datore di lavoro, di valutare preventivamente tutti i rischi connessi all’occupazione. Seppur con approcci diversi, gli Stati Membri paiono aver seguito la guida eurounitaria, recependo la Direttiva con normative nazionali nel tentativo di raggiungere gli obiettivi ivi sanciti (l’Italia, in particolare, ha adottato il d.lgs. 626/1994).

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Anche nella prospettiva europea, comunque, l’Italia si contraddistingue per aver prescelto una risposta alle storture lesive del rapporto di lavoro che è di natura precipuamente penale e punitiva. La popolarità della punizione non deve stupire: come è stato acutamente osservato in dottrina (Castronuovo et al, 2023), l’introduzione di nuovi reati è un’operazione legislativa a costo zero, a differenza di altre soluzioni che, per la loro attuazione, richiedono un immediato prelievo dalle casse pubbliche.

Sarebbe errato, però, concludere che il nostro Paese, del tutto sbilanciato sulla punizione, nulla dica in termini di prevenzione dell’infortunio.

Ad esempio, anche solo l’obbligo previsto dal d. lgs. n. 81/2008, per il datore di lavoro, di individuare tutti i rischi connessi con lo svolgimento dell’attività lavorativa e redigere il Documento di Valutazione dei Rischi (DVR), rivela la volontà, da parte del legislatore, di rafforzare il crisma preventivo della disciplina: più si è in grado di conoscere ex ante l’estensione della sfera di rischio, meglio si riesce a gestirlo e prevenirlo.

Ciò comporta l’emersione – seppur timida – di una dimensione auto-normata della sicurezza sul lavoro, secondo cui è lo stesso datore di lavoro ad individuare e gestire i propri rischi, seguendo best practices (di cui parla espressamente l’art. 2, lett. v), del d.lgs. 81/2008) e regolamentando autonomamente gli aspetti più tecnici della disciplina.

Eppure, qualcosa non va.

Spesso infiltrate nella complessa diramazione di deleghe di funzioni, appalti e subappalti, le tragedie sul luogo di lavoro mettono in luce come, nei fatti, vi sia una crescente distanza tra i desiderata dell’assetto normativo – come visto, all’apparenza completo e avanzato – e la prassi aziendale. L’articolazione frammentata delle responsabilità datoriali tra più soggetti spesso offusca la vista su chi, nell’impresa, sia effettivamente deputato a cosa; tanto purtroppo emerge con sin troppa chiarezza quando qualcosa, nella catena di deleganti e delegati, si rompe, innescando la tragedia. Si pensi alle ipotesi, frequentissime, in cui nell’impresa il ruolo formale assegnato a taluno non corrisponda alla sostanza delle sue mansioni. Ecco allora l’instancabile guerra tra la forma e la sostanza, tra l’emergere arrogante di responsabilità penali c.d. di posizione, ancorate sulla mera forma, e le spinte opposte protese verso la ricerca di una rimproverabilità che sia effettivamente fondata sulle attività sostanzialmente svolte.

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A tale complessa architettura si aggiunga la superficialità di taluni nel ritenere di poter risparmiare (in termini di costo e/o di tempo) sui dispositivi di sicurezza, sulla manutenzione delle attrezzature, su formazione e addestramento degli operai, così rendendo sempre più difficile arrestare la pericolosa strage degli infortuni sul lavoro.

Insomma: è evidente che gli intrecci normativi e prasseologici del lavoro moderno producono delle terribili storture, dal prezzo elevatissimo. È pure evidente come lo strumento legislativo duro, top-down, seppur articolato e d’ampio respiro, non sia sufficiente.

Che fare, quindi, per onorare quanto sancito nella Carta costituzionale?

 

Il sentiero da percorrere.

Come visto, di punizione nel nostro impianto giuslavoristico ce n’è già a sufficienza. Un facile stendardo politico da agitare in tempi di crisi, l’uso del pugno duro contro i cattivi sembra una tecnica più efficace nell’acquietare il dissenso più che nel prevenire i decessi sul lavoro.

Non è quindi con l’introduzione di nuovi reati che si potrà efficacemente agire.

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Ciò che manca, in realtà, è il rafforzamento del momento partecipativo e collaborativo dell’impresa e dei lavoratori tutti.

È imprescindibile, innanzitutto, che il datore di lavoro percepisca la sicurezza sul lavoro come un doveroso contributo verso l’attuazione concreta di diritti fondamentali, nonché come un effettivo risparmio di spesa. Del resto, l’art. 41 della Costituzione disegna la libertà d’iniziativa economica come un diritto necessariamente bilanciato dal limite dell’utilità sociale, del danno alla salute, all’ambiente, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana. E questo bilanciamento, non può che giovare all’impresa: un’oncia di prevenzione vale una libbra di cura, diceva Benjamin Franklin.

Tale maggiore collaborazione da parte del datore di lavoro non può che passare per la strada dell’auto-normazione, dello sviluppo, rafforzamento e diffusione delle best practices in tema di sicurezza, del ricorso più vigoroso alla soft law aziendale. L’affinamento della compliance interna in tema di salute e sicurezza, specie dopo l’introduzione dell’art. 25-septies del d.lgs. 231/2001 (che innesca la responsabilità amministrativa dell’ente nel caso della commissione di omicidi o lesioni colpose connesse a violazioni della normativa antinfortunistica), è diventato ormai un requisito essenziale per l’impresa moderna. Con effetti anche giudiziali: ciò che si vede nelle aule di giustizia, è molto spesso la tendenza a ricercare il responsabile tra i vertici più alti dell’organigramma aziendale, amministratori delegati, consiglieri, sindaci, eccetera. Insomma: gli apicali.

Per arginare questa tendenza di scalata verso l’alto del responsabile per gli infortuni sul lavoro, è necessario che l’impresa adotti un modello organizzativo interno chiaro, efficiente, o, come direbbero gli anglosassoni, “bulletproof”, antiproiettile. Cioè: l’organizzazione interna della società, dal punto di vista della spartizione delle mansioni e dell’individuazione di chi è responsabile di cosa, dev’essere inattaccabile. È chiaro che l’amministratore delegato ha un certo grado di responsabilità gestoria sulla conduzione d’impresa; è anche chiaro, però, che non può essere di certo chiamato a rispondere penalmente in modo automatico ed oggettivo per ogni infortunio che accade sul suolo aziendale. Questo, a maggior ragione, in società particolarmente complesse, dove si affastellano e si accavallano una miriade di funzioni e compiti diversi, senza una chiara individuazione delle relative responsabilità.

In organizzazioni così complesse, è necessario tutelare tutti i soggetti aziendali – dall’apicale al lavoratore – anche e soprattutto dal punto di vista organizzativo; si pensi, ad esempio, all’elaborazione di un meccanismo efficiente di deleghe di funzioni, che consenta all’amministratore delegato di circoscrivere, con chiarezza, la propria sfera di responsabilità.

Di imprese responsabili, sul tema, ce ne sono: si consideri che l’Agenzia europea per la salute e la sicurezza sul lavoro (EU-OSHA) premia le aziende dei Paesi membri che adottano pratiche particolarmente virtuose in ambito di salute e sicurezza (Healthy Workplaces Good Practice Awards). In questo modo, l’EU-OSHA vuole fungere da mediatore per promuovere lo scambio di esperienze e incentivare gli Stati ad adottare le pratiche ritenute particolarmente virtuose.

Più la soft law si avvicina alla potenziale fonte di rischio, più rapida ed efficace sarà la sua gestione, più tecnica e precisa la sua disciplina, incentrata sulla prevenzione ex ante più che sulla punizione ex post.

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Del resto, della self-regulation aziendale come efficace strumento nell’armamentario della conduzione d’impresa ne parlava già John Braithwaite nel secolo scorso: non si tratta di certo di un’inaspettata novità. Per qualche ragione, però, in Italia l’insegnamento australiano di Braithwaite non ha attecchito come in altri paesi; da noi, la sfiducia giurisprudenziale verso la normazione lavoristica privata, insieme con l’inguaribile attrazione verso la punizione penale, ha rallentato lo sviluppo di tecniche regolamentari differenti.

Affinché ciò accada, chiaramente, non si deve di certo volgere un monito paternalistico al tessuto imprenditoriale nostrano; affinché tale selva burocratica si diradi, e i relativi costi si abbassino, è necessario che lo Stato intervenga, nella consapevolezza che riforme di questo tipo non possono essere mantenute a costo zero.

A tale intervento, sì, si deve affiancare la maturazione di un’etica e coscienza collettiva d’impresa che sia davveroconsapevole dell’importanza della sicurezza dei nostri lavoratori. Deve maturare una dimensione più alta di cultura della sicurezza, di cultura della tutela di tutti i soggetti coinvolti nell’impresa, e, da ultimo, di tutela del giusto bilanciamento tra il perseguimento del profitto e i diritti fondamentali.

La sicurezza non dev’essere un compito imposto dall’alto, ma una spinta che parta dal basso, dall’impresa stessa.

Allo stesso modo, il lavoratore deve essere messo nelle condizioni di comprendere l’importanza del proprio contributo, attraverso attività informative, formative e partecipative. Non deve sfuggire a nessun dipendente, infatti, come ci sia una sola ricompensa per aver lavorato in sicurezza oggi: domani.

Si pensi che l’art. 9 dello Statuto dei lavoratori (l. 20 maggio 1970, n. 300), prevede già dal 1970 che “I lavoratori, mediante le loro rappresentanze, hanno diritto di controllare l’applicazione delle norme per la prevenzione degli infortuni e delle malattie professionali e di promuovere la ricerca, l’elaborazione e l’attuazione di tutte le misure idonee a tutelare la loro salute e la loro integrità fisica”.

La sicurezza è quindi un compito collettivo, condiviso dall’intera dimensione aziendale.

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In questo contesto, una figura chiave viene certamente rivestita dal consulente, dal legale, che può sensibilizzare sia l’impresa, aiutandola a gestire le complessità della materia, riducendone i rischi, sia i lavoratori, rendendo intellegibili procedure e protocolli, in modo che non rimangano lettera morta. Come si è detto, d’altronde, non è la carta che salva le persone, ma sono le persone che salvano le persone.

Non solo: il consulente può concretamente seguire l’impresa nell’affinamento delle strategie e dei modelli di compliance interni poco sopra citati, al fine di garantire la giusta e chiara ripartizione di compiti e responsabilità.

Una maggiore diffusa sensibilizzazione pare essere stata raggiunta con più rapidità sulle tematiche ambientali: nessuna moderna azienda si sognerebbe, oggi, di ignorare o sottovalutare l’universo della ESG, della sostenibilità e della tutela dell’ambiente. Molte aziende, invece, così si comportano con la tutela dei lavoratori.

 

Un primo passo?

Alla luce di quanto si è detto, potrebbe essere un primo passo l’accordo raggiunto nei giorni scorsi dall’Esecutivo con i sindacati, incentrato nel reperimento – insieme all’Inail – di ingenti risorse (complessivamente ammontanti a 1.2 miliardi di euro) finalizzate alla realizzazione di una serie di interventi concreti a tutela dei lavoratori.

Il governo si è poi mostrato incline a una revisione delle regole che governano i subappalti e le gare, con l’obiettivo di rafforzare i controlli e le responsabilità in materia di sicurezza dei lavoratori, a fronte delle frequenti denunce dei sindacati relative alla prassi di formare catene di subappalti a cascata, che spesso hanno, quasi come conseguenza diretta, l’affievolimento dei controlli e l’incremento dei rischi per i lavoratori.

Tale apertura alla revisione della normativa in questione, con ogni probabilità, almeno in parte, trova spazio anche alla luce dell’imminente referendum che, tra i diversi quesiti, propone l’abrogazione della norma che esclude la responsabilità solidale del committente, dell’appaltatore e del subappaltatore, per gli infortuni sul lavoro derivanti da rischi specifici dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.

È quindi il momento giusto per rimettere sul tavolo il tema della sicurezza sul lavoro, per ascoltare, sul serio, il monito del Presidente Mattarella, e, per una volta, non riformare una materia correndo verso il codice penale; piuttosto, correndo nella direzione opposta.

Come citare il contributo in una bibliografia:
G. Fornari, Sicurezza sul lavoro: l’urgenza di un cambiamento possibile, in Giurisprudenza Penale Web, 2025, 5



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