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17mila imprese pronte al salto


– di: Vittorio Massi

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C’è un’Italia nascosta che aspetta solo il via: sbloccarla può valere il 3% in più di export. Ma servono strumenti, visione e coraggio.

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Un tesoro inesplorato nell’economia italiana

Sono 120.876 le imprese italiane che oggi esportano beni e servizi nel mondo. Ma ce ne sono almeno 17.000 – secondo il nuovo rapporto Unioncamere-Centro Studi Tagliacarne presentato il 23 maggio 2025 a Roma – che hanno tutte le carte in regola per farlo, ma restano al palo. Le chiamano “potenziali esportatrici”: piccole, spesso piccolissime aziende che potrebbero diventare motore di crescita economica, ma che non riescono a oltrepassare i confini per limiti strutturali, culturali, tecnologici o burocratici.

Attivarle significherebbe un balzo del 2,6-3% dell’intero valore dell’export italiano. Un incremento possibile in tempi relativamente brevi, se si interviene con politiche mirate di accompagnamento e internazionalizzazione. Ma oggi questo tesoro è ancora largamente inesplorato.

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Chi sono le imprese pronte a decollare

Le aziende individuate nel report si dividono in due gruppi:

Aspiranti esportatrici: 5.601 imprese, in gran parte “micro” (il 97,5% ha meno di 10 addetti), che attualmente non esportano ma hanno tutti i prerequisiti per iniziare. Il 46,8% opera nel manifatturiero, con forti presenze nella lavorazione dei metalli, nell’agroalimentare e nell’industria del legno.

Emergenti: 11.427 imprese che già esportano, ma in modo saltuario e non strutturato. Più diversificate, queste aziende sono presenti anche in settori come la manutenzione di macchinari e l’installazione di impianti tecnologici. In questo gruppo, aumenta anche il peso delle piccole e medie imprese più strutturate.

Il 59,7% delle imprese potenziali esportatrici si trova nel Nord Italia, mentre il Centro e il Mezzogiorno faticano a esprimere lo stesso livello di potenziale: rispettivamente il 19,2% e il 21%, con una maggiore incidenza nel Sud delle aziende ancora completamente assenti dai mercati esteri.

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Dazi, rischi e dipendenze: il nodo Stati Uniti

Il report lancia un monito chiaro anche su un altro fronte: la fragilità di alcune “emergenti” che hanno puntato tutto su un unico mercato, quello statunitense. Sono solo 1.600 le aziende in questa fascia che esportano negli USA, ma per due su tre quel mercato rappresenta l’unico sbocco oltreconfine.

Un rischio evidente, soprattutto nel clima politico attuale, segnato dal ritorno di politiche protezionistiche. Con Donald Trump alla Casa Bianca, gli Stati Uniti hanno ripreso a innalzare barriere doganali e non, penalizzando l’ingresso di prodotti europei. Le imprese emergenti italiane, che realizzano il 15,7% delle loro esportazioni verso gli USA, risultano quindi particolarmente esposte. In confronto, il totale delle esportazioni italiane verso gli States si ferma al 10,8%.

“Serve un piano B commenta la docente di Economia internazionale Paola Subacchi, intervistata dal Financial Timesperché le incertezze geopolitiche stanno ridisegnando le mappe del commercio. Puntare su un solo Paese, per di più politicamente instabile, è una scelta miope.”

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Milano prima della classe, ma Roma e Torino incalzano

La Lombardia è la regione che ospita il maggior numero di imprese potenziali esportatrici: 4.259 unità, pari al 25% del totale nazionale. Seguono il Veneto (1.933) e l’Emilia-Romagna (1.501). Ma a livello provinciale, dopo Milano – che guida con 1.412 aziende – emergono anche Roma (731) e Torino (720), che consolidano il proprio ruolo di motori economici locali anche in chiave export.

“Il Nord Italia è storicamente più propenso all’internazionalizzazione spiega Alessandro Rota, direttore del Centro Studi Assolombardama stiamo assistendo a una crescita di consapevolezza anche in altri territori, dove i fondi del PNRR stanno aiutando a colmare divari strutturali.”

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Le barriere (nascoste) del mercato unico

Un altro nodo cruciale riguarda l’Unione Europea. Giuseppe Tripoli, segretario generale di Unioncamere, sottolinea: “Oggi il 54,5% delle esportazioni italiane di beni avviene all’interno del mercato unico. Ma le barriere regolamentari tra Paesi membri agiscono come un dazio invisibile: secondo Mario Draghi, incidono per il 40% sullo scambio di beni e fino al 110% sui servizi.”

La spinta verso un’unione economica più integrata – quella che Draghi stesso ha definito in più occasioni “l’unica condizione per competere con Cina e Stati Uniti” – diventa quindi non solo una scelta politica, ma una necessità economica.

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Un’opportunità che vale miliardi

Il quadro complessivo non lascia spazio a esitazioni. L’export italiano ha raggiunto i 623,5 miliardi di euro nei beni e 141 miliardi nei servizi. Ma attivare le potenzialità inespresse significherebbe aggiungere diversi miliardi a questo risultato, con un impatto diretto su occupazione, innovazione, produttività e competitività internazionale.

Le imprese che esportano – ricorda Barbara Colombo, presidente UCIMU sono anche quelle che innovano di più, che formano meglio i dipendenti, che crescono più in fretta. È un moltiplicatore di qualità, non solo di fatturato.”

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Cosa serve ora: formazione, reti, digitale

Per trasformare queste 17.000 imprese da promesse a protagoniste, servono politiche pubbliche intelligenti. Secondo Simest, controllata Cdp che gestisce il Fondo 394 per l’internazionalizzazione, le tre leve decisive sono:

Formazione linguistica e manageriale

Integrazione in reti di filiera internazionale

Digitalizzazione e promozione online

Alcuni strumenti ci sono già: finanziamenti a fondo perduto, voucher digitali, fiere internazionali. Ma spesso sono poco accessibili o mal calibrati. Il rischio è che si trasformino in occasioni perse.

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La spinta che manca

Il mondo chiede Made in Italy, e le aziende italiane sanno rispondere. Ma tra la capacità e l’effettiva esportazione c’è di mezzo un deserto burocratico, formativo e culturale che solo una strategia di sistema può attraversare.

Come ha detto il presidente di Unioncamere Andrea Prete: “Incentivare l’export è la via maestra per garantire crescita stabile. Ma serve il coraggio di investire nei territori, accompagnare le imprese più fragili e creare un ecosistema dove internazionalizzarsi non sia un miraggio, ma una tappa naturale.”

Il futuro dell’economia italiana non si gioca solo nei mercati che già conosciamo, ma in quelli che ancora ci attendono. Basta saperli raggiungere.

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