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Confindustria, l’agenda del presidente Orsini: tra bollette, dazi e salari il test con il governo Meloni


di
Dario Di Vico

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L’assemblea degli industriali quest’anno è lontana da Roma, ma attende dalla politica una proposta concreta per abbassare i costi dell’energia. Sullo sfondo gli aumenti in busta paga e il confronto con la Spagna

Siamo arrivati alla vigilia dell’assemblea annuale di Confindustria, che in maniera totalmente inusuale si terrà a Bologna. Come per il presidente Emanuele Orsini, che ha voluto fortissimamente questa scelta, la mossa ha una ratio. Da una parte manda il segnale di una de-romanizzazione dei luoghi decisionali, almeno per quanto riguarda l’organizzazione che guida, ma nella sostanza non vuol dire che de-politicizzi l’azione della confederazione. Tutt’altro. Se c’è una barra che Orsini ha tenuta dritta sin dalla sua nomina è quella della ricerca costante di un rapporto friendly con il governo e in particolare con la premier Giorgia Meloni.
Alla scorsa assemblea (romana), la presidente del Consiglio parlò addirittura più a lungo del presidente di Confindustria e iniziò a costruire un rapporto meno episodico con una base sociale che l’aveva votata, ma storicamente aveva avuto pochi canali di comunicazione con Fratelli d’Italia.
Nei mesi successivi non si può dire che Confindustria sia stata una spina nel fianco del governo e la dimostrazione sta nel crudo rendiconto dell’ultima legge di bilancio.
In nome del taglio del cuneo fiscale sono molte le voci pro-imprese che sono state tagliate, dall’Ace al Fondo automotive. In cambio, Orsini ha ottenuto quel provvedimento di Ires premiale che alla fine si è scoperto riguardare soltanto 18 mila imprese. Non parliamo poi del tormentone di Transizione 5.0, una misura ricca per dotazione, ma che si è rivelata un imperdonabile flop a causa della pesantezza degli adempimenti.

I punti cruciali

Alla vigilia di Bologna, però, tutto ciò appare come acqua passata. L’agenda di oggi vede ai primi punti dazi ed energia. Il mese scorso Meloni, parlando nella Sala Verde con i rappresentanti delle imprese, fece un annuncio-boom: lo stanziamento di ben 25 miliardi derivanti dal Pnrr e da fondi non spesi che sarebbero stati indirizzati a una larga platea di imprese (non soltanto le esportatrici), per affrontare questa difficile fase del loro sviluppo e impedire anche per questa via di cadere in recessione. Dopo l’annuncio arrivò la parziale marcia indietro di Donald Trump, che concesse uno slittamento all’entrata in vigore dei dazi anti-Ue, e dei 25 miliardi non si è più parlato. Ma da venerdì scorso il tema dei dazi per l’Europa è tornato prepotentemente alla ribalta. È possibile che Meloni a Bologna torni sull’argomento o glissi. In questo momento sul tappeto c’è la seconda riprogrammazione del Pnrr e i vari dossier sono in altalena. Si parla di ridurre la dotazione per le opere infrastrutturali, specie quelle ferroviarie. E si sussurra che le partite che resteranno fuori dal Pnrr verranno comunque coperte da fondi nazionali. In questo quadro si parla di un prolungamento di Transizione 5.0 fino al 2028, ma anche in questo caso bisognerà aspettare che Meloni dica qualcosa di compiuto sul lavoro a cui è dedito il suo fedele ministro Tommaso Foti. È vero che quest’ultimo — succeduto a Raffaele Fitto — sta ancora «studiando», come dicono a Roma, ma qualche indirizzo da Bologna dovrebbe venir fuori per le partite che interessano più da vicino le imprese.




















































Il fattore bollette

Il vero colpo di teatro dell’assemblea confindustriale dovrebbe, però, riguardare il costo dell’energia. Sul recente decreto bollette, infatti, l’asse Meloni-Orsini per una volta si è incrinato. La Confindustria ha definito «una follia» il provvedimento e palazzo Chigi ha messo nero su bianco la propria irritazione in merito a questo giudizio tranchant. E la cosa non era finita lì, perché dentro l’associazione degli industriali si è aperta una dura polemica tra i produttori di energia e gli utilizzatori energivori che ha portato a interviste contrapposte sui giornali, voci di clamorose scissioni e minacce di vario tipo.

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Su tutta questa materia Orsini ha cercato di esercitare la sua propensione alla mediazione, sapendo però che alla fin fine, se il conflitto perdurasse, non potrebbe che stare dalla parte delle migliaia di imprese utilizzatrici, la base di Confindustria. E in quel caso, sussurrano in viale dell’Astronomia, anche la potente Enel dovrebbe farsene una ragione. Ma prima di descrivere scenari di guerra bisognerà aspettare ancora una volta che cosa dirà Meloni a Bologna.
Le indiscrezioni quotano un colpo di scena: la presentazione alla platea confindustriale di una nuova misura che dovrebbe mediare tra gli interessi contrapposti, contribuire alla diminuzione del costo dell’energia e mettere tutti d’accordo. Le stesse voci dicono che a questa mediazione hanno lavorato in concordia sherpa confindustriali, del governo e della stessa Enel. Vedremo.
Un terzo argomento al quale Orsini tiene e Meloni dovrà rispondere riguarda l’orizzonte temporale della stessa politica industriale. Non si può andare di finanziaria in finanziaria (con lotteria delle lobby annessa). Confindustria chiede un impegno e un indirizzo almeno triennale, vista la stabilità del quadro politico e, di conseguenza, del governo. Certo, se Orsini nella sua relazione introducesse un’apertura sui salari la cosa verrebbe vista bene dal governo, perché alleggerirebbe la pressione popolare sul tema, ma non è detto che Orsini trovi il coraggio davanti ai suoi iscritti di aprire «quella porta».

Divergenze sindacali

Del resto gli osservatori di relazioni industriali notano come le scelte di alcune associazioni di categoria siano totalmente divergenti in materia di rapporto con il sindacato. Confindustria Moda, con il nuovo presidente Luca Sburlati, ha addirittura firmato un documento comune con le tre confederazioni per salvare il settore dai morsi della crisi. Federmeccanica invece continua con la politica del muro contro muro con Fim-Fiom-Uilm in merito al rinnovo del contratto dei metalmeccanici, il più importante del sistema Paese. Si sa che Confindustria vedrebbe di buon occhio la riapertura del tavolo, ma non è detto che Orsini ne faccia cenno a Bologna.
Tra le curiosità pre-assemblea, infine, ha destato interesse come nell’ultimo bollettino Congiuntura Flash il Centro Studi di Confindustria abbia dato grande spazio all’analisi del caso spagnolo e alla tesi che il successo di Madrid non derivi solo da turismo e costruzioni ma anche dall’industria. Alimentare, farmaceutica, elettronica sono i capitoli più interessanti, ma anche l’auto — che è caduta — ha limitato di molto i danni, specie se paragonata al crollo italiano.

Le virtù spagnole

Insomma tutta la lettura del caso spagnolo porta la Confindustria a dire che lì c’è un clima più favorevole all’impresa, la burocrazia è più efficiente e molto più veloce nei suoi movimenti: per questo ci sarebbero addirittura imprenditori italiani disposti, se non a trasferire le produzioni, quantomeno a scommettere sulla Spagna.
Maliziosamente, si potrebbe rilevare che un peana a un Paese a guida socialista non è un incentivo per persuadere Meloni, ma dal Centro Studi assicurano che non è un confronto tra governi che si vuole proporre, bensì tra sistemi.
E come, ad esempio, a fare la differenza sia un’amministrazione pubblica decentrata che in Spagna ha iter autorizzativi veloci mentre in Italia non perde occasione per mettere i bastoni tra le ruote alle imprese che vogliono investire.


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