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Il tycoon ha concesso a Bruxelles una proroga sulle nuove tariffe al 50%. I mercati tirano il fiato, ma l’incertezza è alle stelle. Ecco le conseguenze della politica USA secondo i gestori
Dopo aver mandato al tappeto i listini venerdì scorso, è arrivato il dietrofront. Lo schema Donald Trump sulla politica commerciale si è ripetuto di nuovo, questa volta contro l’Unione Europea: prima la minaccia di dazi al 50% a partire dal primo giugno, poi la telefonata con la presidente Ursula von der Leyen e l’annuncio di una proroga al 9 luglio. Ma se le piazze europee possono tirare un sospiro di sollievo, in attesa di conoscere l’esito delle trattative tra Bruxelles e Washington, i gestori già provano a farei i conti circa l’impatto delle mosse USA sull’economia del blocco. E soprattutto su quanto inciderà sulle aziende la notevole incertezza causata dalla confusa linea della Casa Bianca.
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L’aumento dell’incertezza
Roberto Gusmerini, head of dealing di Ebury Italia, ha una visione chiara delle ultime iniziative di Trump sul fronte commerciale. “Non è che l’ultima di una lunga serie di dichiarazioni contrastanti e imprevedibili il cui unico effetto è quello di aumentare l’incertezza”, afferma, precisando che ora le aziende esportatrici e non hanno quanto mai necessità di rivalutare le proprie esposizioni e strategie valutarie. Una considerazione cha vale anche e soprattutto nel caso dell’Italia, dove l’esperto vede le tensioni globali intrecciarsi a doppio filo con un’economia già in fase di assestamento.
BCE tra crescita a zero e minacce USA
Massimo De Palma, head of multi asset team di GAM (Italia) SGR, punta l’attenzione sul peggioramento degli indici pmi registrato a maggio dall’Eurozona: la previsione per i prossimi trimestri è infatti di una crescita piatta. “La perdita di slancio nei servizi alimenta attese più accomodanti da parte della BCE soprattutto in vista del meeting di giugno”, osserva l’esperto. A suo avviso, infatti, la combinazione tra crescita fragile e dinamiche salariali ancora forti nei servizi dovrebbe giustificare un ulteriore taglio dei tassi. Tuttavia, avverte, “il percorso successivo resta incerto e legato all’evoluzione dei prezzi e alle politiche commerciali USA”.
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L’effetto su dollaro e Treasury
Quanto invece all’andamento del dollaro e del decennale americano, dove il decoupling si fa sempre più evidente, De Palma fa notare come i tassi sui Treasury abbiano ripreso a salire mentre la valuta statunitense si è mossa nella direzione opposta. “L’aumento del deficit e del debito federale sta rendendo i titoli di Stato USA più vulnerabili”, spiega, “il tutto mentre la Cina continua a ridurre la propria esposizione e pure per il Giappone perde interesse nei loro confronti”. E anche se il Regno Unito ha aumentato gli acquisti, l’esperto evidenzia “quanto le partecipazioni estere ai governativi possano diventare leva nella politica commerciale”. Ne deriva, a suo parere, che il calo della domanda da altri Stati rischia di continuare a penalizzare il biglietto verde anche se la valuta americana potrebbe trovare sostegno dai flussi in ingresso verso il comparto corporate e azionario. “A pesare è anche la posizione speculativa non commerciale”, conclude, “ma a un certo punto il differenziale di tasso nei confronti dell’euro dovrebbe tornare a esercitare un impatto positivo”.
Le conseguenze per le aziende italiane e non solo
Quanto all’euro-dollaro, Gusmerini evidenzia come le imprese italiane si trovino esposte non solo a una potenziale perdita di competitività commerciale ma anche a una volatilità dei tassi di cambio crescente e rende più complessa la gestione del capitale circolante. L’esperto rimarca infatti che l’esposizione valutaria rappresenta una delle principali fonti di instabilità per le aziende operanti a livello internazionale. “Le variazioni nei tassi di cambio possono compromettere la redditività operativa e alterare significativamente il margine di contribuzione, soprattutto in assenza di una strategia di copertura integrata nel framework di tesoreria aziendale”, chiarisce. In particolare, Gusmerini spiega come un rafforzamento dell’euro riduca la competitività dei beni esportati, mentre un deprezzamento improvviso possa far lievitare i costi di importazione e impattare negativamente sui margini operativi. E questo non riguarda più solo le multinazionali, ma anche le pmi che importano materie prime, vendono all’estero o operano su marketplace globali. “In un contesto in cui ogni annuncio può riscrivere le regole del gioco da un giorno all’altro, disporre di strumenti efficaci per mitigare la volatilità derivante dall’andamento dei tassi di cambio diventa un fattore competitivo”, assicura.
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