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Dazi Usa, l’Europa può rispondere colpendo le big tech: ecco come


Il 23 maggio Donald Trump aveva annunciato la volontà di imporre un dazio del 50% su tutte le importazioni provenienti dall’Unione Europea, più del doppio rispetto alla minaccia iniziale del 20%.

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Trump rilancia la guerra commerciale digitale poi frena

La mossa ha evidentemente colto di sorpresa Bruxelles, che nei giorni precedenti aveva coltivato un cauto ottimismo, nella speranza di una de-escalation. Il 26 maggio, tuttavia, è arrivata la sospensione temporanea: parlando con i giornalisti prima di salire sull’Air Force One, Trump ha dichiarato di aver avuto una “telefonata molto cordiale” con la presidente della Commissione Europea Ursula von der Leyen, durante la quale ha confermato l’accoglimento della richiesta europea di proroga. La nuova scadenza per l’eventuale entrata in vigore dei dazi è fissata al 9 luglio.

“I team negoziali si riuniranno rapidamente per vedere se si può trovare una soluzione”, ha aggiunto Trump, sottolineando che “gli Stati Uniti non hanno bisogno del boom dell’industria tessile” e che preferiscono “produrre carri armati, non t-shirt e sneakers”. Von der Leyen ha commentato su X: “Ottima telefonata con il presidente Donald Trump. L’Ue e gli Stati Uniti condividono le più importanti e strette relazioni commerciali del mondo. L’Europa è pronta a portare avanti i colloqui in modo rapido e deciso.

Per raggiungere un buon accordo, abbiamo bisogno del tempo necessario fino al 9 luglio”. Come ha raccontato The Economist, i funzionari europei avevano percepito segnali di apertura da parte americana, complice l’impatto negativo che i primi dazi stavano generando anche per l’economia statunitense. Ma Trump aveva pensato di rilanciare lo scontro. Salvo ripensarci tre giorni dopo.

Le big tech americane punto vulnerabile nella guerra commerciale digitale

Il blocco europeo ha già ipotizzato contromisure tradizionali su prodotti agricoli, veicoli, acciaio e perfino attrazioni da parco. Sul terreno digitale si potrebbe giocare la partita più interessante e strategica.

L’Europa importa una quota significativa di servizi digitali dagli Stati Uniti, soprattutto dalle grandi piattaforme come Google, Amazon, Apple, Meta e Microsoft. Questa dipendenza è diventata anche un nodo politico, visto che i servizi digitali rappresentano un’infrastruttura critica per settori chiave come la sanità, l’istruzione e l’industria. Per questo motivo, la Commissione Europea ha introdotto normative più severe, come il Digital Markets Act (DMA), che mira a limitare gli abusi di posizione dominante da parte dei cosiddetti gatekeeper digitali, e il Digital Services Act (DSA), che impone obblighi più stringenti in termini di trasparenza, moderazione dei contenuti e tutela degli utenti. Il 23 aprile, la Commissione ha inflitto 500 milioni di euro di multa ad Apple per pratiche scorrette nell’App Store e 200 milioni a Meta per violazioni legate alla pubblicità personalizzata. Una decisione su Alphabet è imminente, segnale che l’UE intende usare la leva regolatoria come strumento geopolitico e non solo normativo.

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Tra le opzioni più concrete c’è l’estensione delle restrizioni tecniche alle Big Tech USA: requisiti di localizzazione dei dati, regole per l’accesso al cloud (Buy European), revoche di autorizzazioni.

Stéphane Séjourné, vicepresidente della Commissione europea responsabile del mercato interno, vuole introdurre clausole “Buy European” per i settori sensibili.

Alcuni paesi stanno già ripensando la loro esposizione ai fornitori americani di servizi digitali nel cloud.

In Italia c’è un possibile terremoto nel disegno di legge sull’AI, che potrebbe restringere l’uso delle big tech nei servizi pubblici.

Poiché sta per pubblicare un regolamento sul cloud, l’UE potrebbe adottare una linea dura. Microsoft ha cercato di placare le preoccupazioni europee annunciando “cinque impegni digitali”, che includono l’aiuto alla costruzione di infrastrutture e la protezione della privacy.

Microsoft ha già cercato di anticipare il colpo con la proposta di cinque “impegni digitali” a tutela della sovranità europea.

Questi impegni includono:

  • il supporto alla creazione di infrastrutture digitali locali;
  • la trasparenza e conformità con la normativa UE;
  • il rispetto dei diritti fondamentali, in particolare la protezione dei dati personali;
  • la collaborazione con fornitori locali europei; e
  • l’impegno a garantire interoperabilità e apertura dei servizi cloud.

Si tratta di una strategia preventiva per mantenere una posizione di mercato solida, ma l’UE potrebbe comunque decidere di spingersi oltre, rendendo il terreno digitale meno ospitale per le aziende statunitensi.

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Il nodo della fiscalità digitale e il rischio di ritorsione mirata

Un’altra leva cruciale è quella fiscale. Negli ultimi anni, diversi Stati membri dell’UE hanno valutato l’introduzione di una Digital Services Tax (DST), pensata per colpire le multinazionali tecnologiche che generano ricavi significativi nel mercato europeo ma pagano imposte ridotte grazie a strategie di ottimizzazione fiscale. Le imposte proposte, spesso fissate tra il 2% e il 7% dei ricavi, riguardano in particolare la pubblicità online, i marketplace digitali e la vendita di dati degli utenti. L’obiettivo è duplice, da un lato riequilibrare la concorrenza tra imprese europee e Big Tech americane, dall’altro far sì che la tassazione rifletta più fedelmente il luogo in cui si crea valore economico.

Le conseguenze indirette non sono trascurabili. Studi empirici, come quello di Dominika Langenmayr e Rohit Reddy Muddasani sull’effetto pass-through nel caso di Amazon, hanno mostrato che una parte significativa del prelievo viene trasferita sui venditori terzi, quindi indirettamente, sui consumatori finali attraverso l’aumento dei prezzi.

L’adozione di una tassa digitale uniforme a livello europeo resta complessa per motivi politici e giuridici, nonostante gli sforzi dell’OCSE per una soluzione multilaterale. Inoltre, misure unilaterali rischiano di innescare contro-ritorsioni da parte degli Stati Uniti, come avvenuto nel 2020, quando l’amministrazione americana minacciò dazi su prodotti francesi in risposta alla taxe GAFA. In questo contesto, una scelta europea su base nazionale o coordinata dovrebbe essere valutata anche come leva di pressione strategica, non solo fiscale. In un quadro di tensioni crescenti, il digitale non è solo un settore economico: è un campo di battaglia politico, fiscale e tecnologico dove si gioca parte dell’autonomia futura dell’Europa.

Conflitti geopolitici e squilibri interni tra classi sociali

Per interpretare questa nuova fase dello scontro USA-UE, può essere utile il punto di vista offerto da Matthew C. Klein e Michael Pettis nel libro Trade Wars Are Class Wars Gli autori sostengono che le guerre commerciali non sono semplicemente conflitti geopolitici tra Stati, ma il riflesso di squilibri interni tra classi sociali. Nei paesi con surplus commerciale, come Germania e Cina, le politiche economiche hanno spesso l’obiettivo di rendere le esportazioni più competitive, mantenendo bassi i salari e limitando la spesa pubblica e privata interna. Questo genera un eccesso strutturale di risparmio, che non trova sbocchi nel mercato domestico e viene quindi investito all’estero, ad esempio acquistando titoli del debito di altri paesi o finanziando investimenti internazionali.

Nei paesi in deficit, come gli Stati Uniti, questo afflusso di capitali esteri riduce artificialmente i tassi di interesse, stimola il credito al consumo e alimenta bolle speculative nel settore immobiliare o finanziario. Questi squilibri portano a fragilità interne, come un aumento del debito privato, una polarizzazione della ricchezza e una crescente insoddisfazione sociale.

Quando tali tensioni raggiungono livelli critici, la risposta politica può manifestarsi sotto forma di guerre commerciali, apparentemente orientate verso l’esterno ma in realtà espressione di conflitti redistributivi interni: uno scontro tra classi, come sostengono Klein e Pettis, in cui la politica commerciale diventa strumento di consenso e riequilibrio sociale. Trump, in questa chiave di lettura, non sta solo cercando di proteggere l’industria americana: sta cercando di compensare uno squilibrio interno, placando un elettorato impoverito da decenni di disuguaglianze e deindustrializzazione.

La UE, nel rispondere, dovrà tenere conto non solo della geopolitica, ma delle sue stesse fratture sociali e delle dipendenze tecnologiche accumulate negli ultimi vent’anni.

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Tre scenari per evitare l’escalation nella guerra commerciale digitale

La sospensione concessa fino al 9 luglio offre una finestra di tempo preziosa per valutare le opzioni e negoziare una soluzione che eviti un’escalation dagli esiti incerti. Le guerre commerciali sono facili da iniziare e difficili da controllare, si rischia di danneggiare cittadini e imprese senza risolvere i problemi strutturali alla base del conflitto. È significativo che Trump, pur mantenendo un tono aggressivo, abbia aperto a un confronto, segno che anche negli Stati Uniti esistono divergenze strategiche su come gestire il rapporto con l’Europa. L’UE, da parte sua, deve sfruttare questo tempo non solo per negoziare, ma per rafforzare la propria autonomia strategica e ribilanciare le dipendenze critiche, in primis nel digitale.

Seguendo la lettura di Klein e Pettis, si possono immaginare tre scenari:

  • Lo scenario difensivo: l’Europa adotta misure minime, puntando su strumenti giuridici esistenti (DMA, DSA), evitando escalation e mantenendo il dialogo aperto. È la scelta della prudenza, ma rischia di essere letta come debolezza.
  • Lo scenario simmetrico: l’UE risponde colpo su colpo, introducendo tasse digitali e restrizioni commerciali. Potrebbe consolidare il fronte interno e ristabilire un equilibrio, ma al prezzo di tensioni economiche e ritorsioni che danneggiano cittadini e imprese.
  • Lo scenario trasformativo: l’Europa coglie l’occasione per riformare strutturalmente il proprio modello di crescita, riducendo le dipendenze esterne e rafforzando la domanda interna. Secondo Klein e Pettis, è l’unico modo per agire sulle cause profonde dello squilibrio globale, trasformando la crisi in leva di cambiamento sistemico.

Il digitale ridefinisce la sovranità nella guerra commerciale

In ognuno di questi scenari, il digitale gioca un ruolo chiave: non solo come ambito di scontro, ma come spazio in cui ridefinire sovranità economica, fiscale e sociale.

Come conclude The Economist, Trump ha avviato un “ballo imbarazzante e piuttosto stupido”. Lui lo stesso lo ha confermato cambiando idea appena tre giorni dopo aver preso la decisione di rilanciare i dazi. L’Europa ha la possibilità di danzare con intelligenza, trasformando la minaccia in un momento di ripensamento delle proprie leve economiche, tecnologiche e politiche.



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