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Trump, dopo aver danneggiato gli agricoltori dell’Iowa, rischia ora di perdere il sostegno degli Stati del Sud


Premessa doverosa: questa analisi non entra nel merito del dibattito ambientale su energie rinnovabili e cambiamento climatico, ma si concentra sugli impatti economici della proposta fiscale avanzata dall’amministrazione Trump.
Il cuore del problema è il cosiddetto “Big Beautiful Bill”, una maxi-riforma fiscale che dovrebbe essere votata al comitato del Senato entro il Memorial Day.

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Fino a poco tempo fa, molti CEO del settore solare ritenevano che gli ingenti investimenti nei distretti elettorali repubblicani avrebbero messo il comparto al riparo dalle minacce di Trump. Invece, la versione del disegno di legge approvata questa settimana alla Camera dei Rappresentanti è diventata un incubo per il settore: non solo vengono eliminati i principali crediti d’imposta per le energie rinnovabili, ma si aggiungono dazi del 3125% sui pannelli solari importati, scatenando un sell-off tra i titoli del comparto.


Colpiti proprio gli Stati che avevano votato per Trump

Sebbene la legge debba ancora essere approvata dal Senato, il testo attuale cancella di fatto gran parte dell’Inflation Reduction Act approvato sotto la presidenza Biden. Un intervento che rischia di compromettere uno dei pochi casi recenti di rinascita manifatturiera americana, legato proprio allo sviluppo dell’energia pulita.

Secondo Ross Hopper, CEO della Solar Energy Industries Association, il provvedimento dimostra una “volontaria ignoranza” delle dinamiche economiche legate alla transizione energetica: si sottovaluta totalmente il ruolo che il solare e l’accumulo tramite batterie giocano nel soddisfare la domanda energetica interna. Le conseguenze potrebbero essere devastanti: fino a 250.000 posti di lavoro a rischio e aumento dei costi dell’energia per famiglie e imprese.

E il paradosso politico è evidente: gran parte di questi posti di lavoro si trovano proprio negli Stati del Sud, storicamente vicini a Trump, dove l’industria dell’energia solare aveva conosciuto una crescita esponenziale proprio grazie ai crediti fiscali federali introdotti nel 2022.


Numeri record (e ora a rischio) nell’accumulo energetico

Secondo una ricerca congiunta del MIT e del Rhodium Group, dal 2022 – anno dell’approvazione dell’IRA – le imprese hanno investito oltre 161 miliardi di dollari in progetti di energia solare e sistemi di accumulo a batterie. L’Energy Information Administration prevede che l’81% della nuova capacità elettrica installata negli USA nel 2025 deriverà da questi due settori.

Dilazione debiti

Saldo e stralcio

 

Con l’approvazione del disegno di legge, verrebbero cancellati i due principali incentivi che ne hanno favorito lo sviluppo: il credito d’imposta sugli investimenti (Investment Tax Credit) e quello sulla produzione (Production Tax Credit), entrambi cruciali per gli impianti costruiti dopo l’entrata in vigore della norma o in funzione oltre il 2028.


Lo shale oil non basta: la contraddizione strategica

Trump ha difeso il provvedimento invitando il Senato ad approvarlo “il prima possibile” per non comprometterne l’efficacia. Ma l’alternativa suggerita – ovvero un ritorno aggressivo al “Drill, baby, drill” – si scontra con la realtà economica dello shale oil e dello shale gas.

Le pressioni esercitate da Trump sull’Arabia Saudita per riportare il prezzo del petrolio tra 40 e 50 dollari al barile minano la stessa sostenibilità economica dei produttori statunitensi. L’estrazione non convenzionale di shale ha costi medi compresi tra 35 e 40 dollari, e un prezzo sotto i 50 dollari comporterebbe margini ridottissimi, se non addirittura negativi.

In questo scenario, non solo sarebbe difficile espandere nuovi impianti, ma si rischierebbe una vera e propria ondata di chiusure. Con effetti a catena su occupazione, investimenti e capacità produttiva interna, proprio in quegli Stati produttori che avevano sostenuto Trump.


Conclusione: una mossa che potrebbe ritorcersi contro

Il Big Beautiful Bill, nella sua forma attuale, appare come una mossa economicamente rischiosa e politicamente controproducente. Va a colpire alcuni dei settori industriali in più rapida crescita negli Stati Uniti e rischia di erodere il consenso tra gli stessi elettori repubblicani che avevano abbracciato il “green business” per rilanciare occupazione e sviluppo locale.

In un momento in cui il mondo guarda all’indipendenza energetica, alla transizione sostenibile e a nuove filiere industriali per il futuro, minare la base fiscale che ha sostenuto questo percorso potrebbe significare bruciare capitale economico e politico in un solo colpo.

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