Fuga dei capitali: ogni anno 300 miliardi di risparmi europei cercano rendimenti all’estero. L’Europa resta a corto di opportunità
Ogni anno, oltre 300 miliardi di euro di risparmi privati lasciano l’Europa per cercare migliori opportunità d’investimento all’estero, in particolare negli Stati Uniti. È una cifra che equivale a circa il 2% del PIL dell’Eurozona, e che rappresenta un segnale chiaro del malfunzionamento strutturale dei mercati dei capitali europei.
La questione è tutt’altro che marginale. Secondo stime della Commissione Europea, i cittadini europei continuano a risparmiare a ritmi elevati – il tasso di risparmio delle famiglie nella zona euro si attesta attorno al 13-14% del reddito disponibile – ma tali risorse non vengono reindirizzate in modo efficiente verso l’economia reale. Manca un ecosistema robusto che permetta a quei capitali di trasformarsi in investimenti produttivi: innovazione, crescita aziendale, infrastrutture, transizione energetica.
La grande frattura: risparmio abbondante, investimenti stagnanti
Il paradosso europeo è evidente. Da un lato, un’enorme massa di risparmio, superiore per dimensioni persino a quella americana. Dall’altro, una cronica carenza di strumenti efficaci per convogliare questi fondi nel tessuto produttivo europeo. A fare da ponte tra questi due mondi – risparmio e investimento – dovrebbe essere un mercato dei capitali integrato e profondo, come quello statunitense. Ma in Europa questo ponte è ancora lontano.
Il confronto con gli Stati Uniti è impietoso: Wall Street riesce ad attrarre capitali europei in misura crescente grazie alla maggiore efficienza, alla profondità dei mercati finanziari e a un quadro normativo unitario. Secondo i dati della BCE, circa il 45% degli asset finanziari esteri detenuti da fondi europei sono denominati in dollari e localizzati negli USA.
Una Capital Markets Union incompiuta
L’ambizione della Capital Markets Union (CMU), lanciata dalla Commissione Europea nel 2015, era proprio quella di costruire un sistema finanziario paneuropeo che superasse i confini nazionali. Un’unione dei mercati dei capitali capace di offrire alle imprese – soprattutto PMI innovative e start-up – le stesse opportunità di accesso ai finanziamenti che oggi esistono per i giganti quotati.
Eppure, nonostante alcuni progressi regolatori (come la revisione della MiFID II, l’avvio del progetto ELTIF per investimenti a lungo termine e la semplificazione dei prospetti informativi), la CMU resta ancora un progetto incompiuto. Le differenze tra i regimi fiscali, giuridici e di vigilanza tra i vari Stati membri frammentano il mercato e scoraggiano gli investimenti transfrontalieri.
Come ha osservato Daniele Manca del Corriere della Sera nella rubrica «Non solo numeri», “il sospetto è che i singoli Stati nazionali non vogliano fare gli stessi passi avanti compiuti dalle istituzioni europee”. La moltiplicazione delle autorità di controllo e la resistenza a cedere sovranità finanziaria impediscono la nascita di un mercato dei capitali realmente integrato, così come del resto nel 1992 il Trattato di Maastricht gettò le basi per l’euro.
Il peso degli investimenti pubblici non può bastare
In assenza di un flusso strutturale di capitale privato verso l’economia reale, il rischio è che si continui a fare affidamento in modo sproporzionato sugli investimenti pubblici. Ma questa strategia ha limiti evidenti, soprattutto in un contesto in cui le finanze pubbliche di molti Paesi sono già messe a dura prova dalle sfide del debito, della transizione green e della spesa sociale.
Secondo uno studio di McKinsey, l’Europa avrebbe bisogno di mobilitare almeno 800 miliardi di euro all’anno in investimenti privati aggiuntivi entro il 2030 per centrare gli obiettivi di crescita sostenibile e digitale. Senza un meccanismo efficiente che canalizzi i risparmi verso questi impieghi, sarà difficile colmare questo gap.
La posta in gioco: competitività e autonomia strategica
In gioco c’è anche la sovranità economica e tecnologica del continente. Senza capitali domestici in grado di sostenere le imprese più innovative, l’Europa rischia di perdere terreno nei confronti delle grandi potenze globali. Le startup europee, ad esempio, raccolgono in media meno della metà del capitale delle loro controparti americane. E non è un caso che molti “unicorni” europei finiscano per quotarsi a New York anziché a Francoforte, Parigi o Milano.
Il nodo cruciale resta dunque politico: serve un deciso impulso verso l’integrazione finanziaria, anche a costo di superare le resistenze nazionali. Come suggeriscono diversi osservatori, solo un “mercato dei capitali unico” potrà rendere l’Europa più competitiva, resiliente e capace di finanziare le transizioni epocali che la attendono.
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