La legge sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili delle imprese individua quattro dimensioni della partecipazione (gestionale, economico-finanziaria, organizzativa, consultiva), ne chiarisce i contenuti, e ne regola lo sviluppo attraverso la contrattazione collettiva
Lo scorso 14 maggio 2025 il Parlamento italiano ha approvato la legge di iniziativa popolare recante «Disposizioni per la partecipazione dei lavoratori alla gestione, al capitale e agli utili delle imprese». La notizia, forse in parte oscurata dal più mediatico dibattito con ad oggetto i quesiti referendari su licenziamenti, appalti e lavoro termine, pare tutta da rimarcare, trattandosi di una normativa che, dopo quasi ottant’anni, attua l’art. 46 della Costituzione sul coinvolgimento dei lavoratori nella gestione dell’impresa. Senonché, tra entusiasmi affrettati e critiche pregiudiziali, il dibattito pubblico – ma anche quello tecnico tra esperti e operatori – sembra faticare a leggere il provvedimento normativo per quello che effettivamente è.
Il testo di legge, dopo un iter legislativo avviato dalla raccolta firme della Cisl e perfezionato in un lungo lavorio alla Camera dei deputati che ha asciugato – secondo taluni impoverito – notevolmente il disegno di legge originario, non impone modelli rigidi né apre alla cogestione alla tedesca. Non prevede obblighi generalizzati né diritti soggettivi immediatamente esigibili da parte dei lavoratori e dei loro rappresentanti. Si muove, al contrario, in una cornice prettamente promozionale: individua quattro dimensioni della partecipazione (gestionale, economico-finanziaria, organizzativa, consultiva), ne chiarisce i contenuti, e ne regola lo sviluppo attraverso la contrattazione collettiva.
I detrattori, soprattutto nel mondo sindacale, lamentano il carattere blando della legge che non realizza effettivamente l’iniziativa popolare ma che si limita a riportare per lo più dichiarazioni altisonanti ma prive di sostanza, subordinando in tutto e per tutto l’attivazione di pratiche partecipative alla volontà del datore di lavoro.
La legge non è priva di limiti. Innanzitutto, per quanto riguarda la partecipazione dei lavoratori agli utili dell’impresa, va sottolineato la durata limitata (fino al 2025) e lo stringente requisito del 10% degli utili, come quota minima per l’accesso ai benefici economici. Inoltre, manca sufficiente chiarezza tra i concetti di gain sharing (premi di risultato) e profit sharing (partecipazione agli utili) in quanto solo a quest’ultimo si applicano le agevolazioni fiscali né si comprende l’esclusione dalla proposta iniziale dei cosiddetti accordi fiduciari (voting trust) che avrebbero invece permesso ai lavoratori una gestione collettiva dei diritti derivanti dalle azioni, rafforzando la loro influenza nella governance aziendale.
Così come, in materia di partecipazione gestionale, paiono da risolvere i rischi di incompatibilità tra le nuove previsioni di legge e il più comune diritto societario (per esempio in materia di nomina dei componenti dei CdA). Né pare del tutto scevro di ambiguità il ricorso, da parte del legislatore, alla generica figura dei “rappresentanti dei lavoratori”, in luogo di quella delle rappresentanze sindacali aziendali e unitarie, più radicate nel nostro sistema di relazioni industriali.
Ma chi misura la portata della legge solo con il metro della sua forza vincolante – o, meglio, della sua prescrittività giuridica – rischia di mancare il senso politico e culturale. La partecipazione, come la contrattazione, non si impone per legge: si costruisce nelle relazioni e nei contesti produttivi. E questa legge, con tutte le sue imperfezioni, è molto di più di un invito a farlo perché accompagna passo dopo passo gli operatori aziendali e sindacali razionalizzando l’esistente che non è poco.
Per un verso, sono previsti specifici incentivi economici e la costituzione di un fondo statale dedicato, per un totale di 71 milioni, riconosciuti in caso di attivazione di forme di procedure partecipative di tipo economico-finanziario, senza dimenticare le già esistenti agevolazioni fiscali previste in caso di premi di risultato e coinvolgimento paritetico dei lavoratori (l. 208/2015). Per altro verso, nel tentativo di sviluppare una cultura partecipativa tra gli attori aziendali, è disposto un obbligo formativo in capo ai componenti delle commissioni paritetiche, per favorire la diffusione e l’effettiva attuazione delle prassi partecipative previste dalla legge. Infine, è strategico il ruolo di regia e monitoraggio assegnato alla Commissione nazionale permanente per la partecipazione dei lavoratori, costituita presso il CNEL, con compiti di presidio e coordinamento.
È anche – se non soprattutto – in questo apparato di “strumenti” che la legge può fare la differenza: non perché cambia le regole del gioco dall’alto ma perché fornisce un quadro concettuale e dispositivi funzionali a implementare quello che, almeno in seme, esiste già. Lo studio sistematico della contrattazione collettiva degli ultimi decenni ci consegna in effetti, già oggi, una ricca casistica di istituti e strumenti partecipativi formalmente concordati tra gli attori del nostro sistema di relazioni industriali. Il monitoraggio della contrattazione decentrata in Italia dal 2012 al 2024 che è stato realizzato attraverso i rapporti Adapt, mostra come circa la metà dei contratti aziendali oggetti di analisi (circa 400 per anno) contenga già forme di partecipazione dei lavoratori ai processi decisionali, soprattutto in termini di consultazione ed esame congiunto.
Tuttavia, il più delle volte, questi accordi aziendali si fermano alla “conquista politica” del diritto senza cioè una conseguente implementazione sul piano pratico, nella vita delle imprese e delle organizzazioni in generale. Ma, in una fase storica in cui la qualità del lavoro è al centro del dibattito e la disaffezione verso il lavoro (e verso la rappresentanza del lavoro) è palpabile, paiono proprio gli strumenti partecipativi la chiave per favorire un clima collaborativo. Non si tratta di sostituire il “conflitto” con il “consenso” ma di affiancare alla dimensione rivendicativa una capacità di costruzione comune tale da rafforzare anche la contrattazione collettiva. Anche la sola partecipazione organizzativa, per intenderci, può essere una leva per incrementare in modo sostenibile i salari con i necessari incrementi di produttività.
Il dibattito parlamentare e le audizioni delle parti sociali restituiscono un quadro che sul punto è ancora polarizzato. CGIL e UIL, in particolare, si sono dichiarate nettamente contrarie al testo di questa legge poiché non tiene conto della mancanza di un quadro normativo coerente sulla rappresentanza e rappresentatività sindacale e di una legge che garantisca l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi che invece si ritiene imprescindibile se si vuole rendere effettiva la partecipazione. In particolare la CGIL non ha mancato di sottolineare che la partecipazione dei lavoratori, quando si sviluppa all’interno delle commissioni paritetiche, può in qualche misura indebolire il ruolo della contrattazione collettiva e il potere delle rappresentanze sindacali presenti in azienda.
Nonostante ciò, con la pubblicazione del testo di legge in Gazzetta Ufficiale, il discorso si sposta ora tutto a livello aziendale e dentro i tavoli negoziali. In questa sede dietrologie e le polemiche sulla genesi della legge sono destinate a perdere quel peso preponderante finora avuto, lasciando agli attori aziendali (e ai loro tecnici) i contenuti di merito e le opportunità aperta dal testo di legge per quello che oggettivamente dice. Aprendo così, a una stagione di relazioni industriali e di lavoro di cui il sistema economico e sociale italiano pare avere particolarmente bisogno. La legge, nella sua natura volontaristica, pone particolare enfasi sulla formazione dei rappresentanti dei lavoratori al fine di promuovere una cultura partecipativa basata sulla contrattazione. Chiaro è che per garantire l’effettiva attuazione della legge è fondamentale un atteggiamento propositivo da parte di tutti gli attori aziendali che sia in grado di superare resistenze e pregiudizi al fine di costruire relazioni di lavoro effettivamente collaborative e costruttive.
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