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Il futuro della transizione energetica è nella digitalizzazione


La transizione energetica potrà avere tutti gli algoritmi del mondo per essere accelerata. Come anche godere della spinta da un investimento pubblico e da un pacchetto di incentivi per le imprese volto alla sostenibilità come nel piano Transizione 5.0. Tuttavia, un passaggio radicale – capace di incidere sul clima, sull’economia e sul futuro del lavoro – dipenderà soprattutto dalla consapevolezza delle persone. Fattore, in questo ambito, spesso sottovalutato.

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Finché non avremo cittadini, lavoratori e imprese realmente coinvolti nei processi di cambiamento, la transizione resterà una questione per addetti ai lavori. La digitalizzazione è uno strumento formidabile, ma senza una coscienza collettiva capace di utilizzarlo in modo responsabile e diffuso, rischia di trasformarsi in un sofisticato placebo.

Cos’è la transizione energetica

Il concetto di “transizione energetica” ha iniziato a entrare nel dibattito politico internazionale a partire dal vertice di Rio del 1992, ma è stato il pacchetto clima-energia dell’Ue del 2008 a porre per la prima volta obiettivi vincolanti di lungo periodo. La svolta globale arriva con l’Accordo di Parigi del 2015, che lega i target energetici alla lotta al cambiamento climatico.

Oggi, secondo IRENA in base ai dati disponibili, le fonti rinnovabili rappresentano circa il 30% della produzione elettrica mondiale, con punte superiori al 70% in paesi come la Norvegia o l’Islanda. L’Unione Europea ha fissato l’obiettivo del 42,5% di energie rinnovabili entro il 2030, con un traguardo di neutralità climatica entro il 2050.

Tra i paesi più avanti nella transizione troviamo la Danimarca (che punta al 100% rinnovabili già nel 2030), la Germania (grazie all’Energiewende), e la Spagna, che ha investito in modo massiccio nel solare.

L’Italia è a metà del guado. Ha una buona base idroelettrica e una forte capacità installata nel solare, ma paga il ritardo autorizzativo e infrastrutturale. Eppure proprio qui, in Italia, il potenziale occupazionale della transizione è tra i più alti d’Europa, grazie a una filiera manifatturiera diffusa e alla crescita dei green jobs.

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L’importanza della decarbonizzazione

Parlare oggi di decarbonizzazione in modo tecnico significa rischiare la noia. Le tecnologie ci sono: fotovoltaico, eolico, idrogeno verde, mobilità elettrica, efficienza energetica. Il punto critico non è il come, ma il quanto velocemente e il con quale consenso sociale.

Il nodo è culturale prima che tecnologico. Chi lavora nella filiera delle risorse umane sa bene che i processi di trasformazione, per essere efficaci, devono essere compresi e interiorizzati dalle persone. Lo stesso vale per la transizione energetica: se non cambia il modo con cui cittadini, imprese e lavoratori percepiscono l’energia — da commodity invisibile a leva di trasformazione — resteremo impantanati in una sostenibilità di facciata.

Il ruolo della digitalizzazione nella transizione energetica

Il vero potenziale della digitalizzazione nella transizione energetica non sta nell’automazione, ma nell’abilitazione. I sistemi digitali — smart grid, sensori IoT, AI per l’energy management — hanno senso solo se rendono le persone più consapevoli, più responsabili e più capaci di scegliere.

Il consumo energetico diventa intelligente quando è trasparente. La produzione distribuita ha senso solo se l’utente finale può parteciparvi attivamente. La digitalizzazione, in questo scenario, è l’infrastruttura del cambiamento, ma il motore resta umano.

Vantaggi della transizione energetica per l’Italia

Secondo il Pnrr, l’Italia ha investito risorse in misura crescente in tecnologie digitali per l’energia negli ultimi cinque anni. Ma rimane al di sotto della media europea per l’automazione del sistema elettrico e la digitalizzazione dei consumi domestici.

La rete capillare delle nostre Pmi resta un punto di forza, in grado di cogliere le opportunità delle tecnologie green. L’ecosistema produttivo nazionale è infatti pronto ad accogliere processi di efficienza energetica. Tuttavia, la burocrazia autorizzativa, la mancanza di formazione tecnica specializzata, come pure una chiara comunicazione sui territori fanno da zavorra al diffondersi di una cultura dell’energia green.

Le sfide della decarbonizzazione

Non è solo una questione ambientale: la transizione energetica è una gigantesca occasione economica e occupazionale. Sempre IRENA ricorda che, entro il 2050, i green jobs potrebbero raggiungere quota 38 milioni nel mondo (oggi sono circa 13).

Ma attenzione: non parliamo solo di tecnici del fotovoltaico o ingegneri ambientali. Serviranno nuove figure ibride, capaci di coniugare competenze digitali, gestione dei dati, visione sistemica e capacità di lavorare in contesti regolatori complessi.

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In questo senso, le politiche di formazione continua diventano una leva fondamentale. E le direzioni Hr giocano un ruolo cruciale nel rendere attrattivi, comprensibili e sostenibili questi percorsi professionali.

Opportunità offerte dall’idrogeno verde

L’idrogeno verde è senz’altro una delle tecnologie più promettenti. L’Italia, con la sua capacità rinnovabile e il know-how manifatturiero, potrebbe diventare un hub euro-mediterraneo per la produzione e il trasporto dell’idrogeno. Ma da sola, nessuna tecnologia risolverà il problema.

La vera sfida è costruire una governance multilivello: locale, nazionale, europea. Con processi decisionali trasparenti, politiche industriali stabili e una visione di lungo periodo.

E soprattutto: con una narrazione diversa. Serve raccontare la transizione non come un sacrificio, ma come una possibilità. Non come un vincolo tecnico, ma come un nuovo contratto sociale.

La strada verso il 2050 passa dalle persone

Il traguardo della carbon neutrality entro il 2050 non è impossibile. Ma è irraggiungibile senza un cambiamento nei comportamenti quotidiani: nei consumi domestici, nei trasporti, nella gestione dell’energia nei luoghi di lavoro.

In questa prospettiva, l’inclusione non è solo un principio etico, ma una condizione tecnica: una transizione che esclude, non funziona. Vanno inclusi i lavoratori a rischio, le comunità più esposte ai cambiamenti industriali, e i territori periferici. Ecco perché la transizione energetica non si fa solo nei consigli di amministrazione o nelle stanze dei ministeri. Si fa — soprattutto — nelle scelte individuali, nel modo in cui ogni cittadino percepisce il proprio potere d’impatto. La digitalizzazione può accelerare tutto questo. Ma senza consapevolezza, sarà solo un esercizio sterile.



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