Il rione Tamburi, periferia nord di Taranto, è tutto tinto di rosso. Anche quello che un tempo era chiaro – case, guardrail, panchine – ha addosso una patina di polvere rossastra. È quella che esce dalle ciminiere dell’impianto siderurgico Acciaierie d’Italia, l’ex ILVA, che sta a circa 400 metri in linea d’aria. Negli anni la polvere si è depositata ovunque. Nei giorni in cui il vento tira forte, e qui sono molti, il fumo si sposta verso i due quartieri sottovento, il Tamburi e il Paolo VI, e si porta dietro una lunga scia di inquinanti: diossina, polveri sottili, anidride solforosa, metalli pesanti, benzene. Meglio restare a casa in quei giorni, dice il Comune. Vento o no, i bambini non giochino negli spazi all’aperto, dice un’altra ordinanza. È vietato anche far pascolare le pecore in un raggio di 20 chilometri, dice sempre il Comune.
In queste settimane a Taranto si vota per eleggere il sindaco e il consiglio comunale, e come sempre l’ex ILVA, il più grande impianto di produzione dell’acciaio d’Europa, è il tema di cui qui si discute di più. I candidati a sindaco al primo turno del 25 e del 26 maggio sono stati sei: nessuno ha preso il 50 per cento necessario per essere eletti al primo turno. Al ballottaggio dell’8 e del 9 giugno andranno Piero Bitetti, centrosinistra, e Francesco Tacente, candidato civico appoggiato da uno schieramento composito, formato soprattutto dalla Lega (che si presentava senza il suo simbolo, con una lista chiamata Prima Taranto) e da vari esponenti della vecchia maggioranza di centrosinistra guidata da Rinaldo Melucci.
L’ex sindaco ha governato per due mandati, entrambi finiti prima del termine naturale per crisi politiche interne alla maggioranza. Secondo molte persone informate sulla questione sentite dal Post, oltre a diversi cambi di schieramento di consiglieri, in generale l’ultima giunta è caduta a causa di un metodo di governo basato sulla trattativa personale più che sulla ricerca di un consenso chiaro e condiviso sulle cose da fare.
(Francesco Gaeta/il Post)
Nei programmi elettorali dei candidati, e naturalmente dei due rimasti al ballottaggio, ci sono state molte parole ed espressioni ricorrenti, quasi in fotocopia: “coniugare ambiente e lavoro”, “diversificare le attività produttive”, “attirare nuovi investimenti”. La differenza sta più negli accenti che nella sostanza. È come se i piani di sviluppo della città fossero così obbligati da essere al tempo stesso convergenti e generici, e dunque irrilevanti. Il motivo per cui questo accade è appunto “la fabbrica”, come viene chiamata da queste parti l’ex ILVA. Diversificare e attirare investimenti dipende dal fatto che l’azienda chiuda o continui. È come se la fabbrica e il suo acciaio tenessero in ostaggio la città.
A dire il vero nessuno tra i politici ha parlato o si dice apertamente favorevole a chiudere l’ex ILVA, per ovvi motivi di consenso: è un’azienda che dà lavoro direttamente a 8.200 dipendenti, più altri 4mila dell’indotto (cioè tutte le attività produttive che lavorano per l’ex ILVA e dipendono interamente da questa). Tutti concordano semmai su una transizione verso un impianto più sostenibile a livello ambientale, cioè alimentato con fonti alternative al carbone che viene usato oggi.
Qualunque cosa questo voglia dire (le soluzioni allo studio sono diverse e hanno costi variabili), non è però il Comune a poter scegliere il destino di questa struttura gigantesca, che anche se dà ancora lavoro a molti ha una produzione dimezzata rispetto al punto di pareggio che sarebbe necessario per sostenere i costi, fissato in 6 milioni di tonnellate di acciaio all’anno. L’azienda accumula perdite per 1,5 milioni di euro al giorno. Decidere spetta al governo, che da oltre un anno ha preso in gestione l’ex ILVA in regime di amministrazione straordinaria (dopo la breve e fallimentare epoca del gruppo franco-indiano ArcelorMittal) e vorrebbe venderla alla società azera Baku Steel (ma è complicato per varie ragioni).
Mentre progetta il futuro, Taranto resta così appesa a una decisione che passa ben sopra la testa di chi la governerà: il risultato delle elezioni comunali insomma incide ben poco sulle grosse questioni che riguardano la città.
Per via della “fabbrica”, nel tempo alla città sono state attribuite varie definizioni. Una sua larga parte è un “Sin”, Sito di Interesse Nazionale, una classificazione prevista dalla legge italiana che indica aree contaminate che presentano un rischio ambientale elevato. Più di recente, l’Onu ha definito Taranto una «zona di sacrificio», in cui cioè «sono danneggiati gli interessi delle generazioni presenti e future».
È un’affermazione che trova alcuni riscontri statistici piuttosto solidi: nei quartieri Tamburi e Paolo VI, i più vicini all’impianto (che si estende nella zona nord della città), i tassi di mortalità sono stati negli ultimi anni superiori dal 15 al 39 per cento rispetto alla media degli altri quartieri, che invece sono più vicini al dato regionale. Nel rione Paolo VI, poi, l’aspettativa di vita è inferiore anche di tre anni (i casi di maggiore divario sono tra le donne) rispetto ad altre zone. «L’aspettativa di vita è un dato “multifattoriale”, cioè dipende da molte cause» commenta Stefano Cervellera, docente di statistica all’università di Bari, che ha curato la raccolta di questi dati. «Ma la differenza resta significativa pur apportando le correzioni relative alla condizione socioeconomica degli abitanti».
Oltre a causare patologie oncologiche e cardiovascolari, negli ultimi anni sono emerse possibili correlazioni tra l’esposizione ad agenti inquinanti come i metalli pesanti scaricati nell’atmosfera e i disturbi dello spettro autistico (ASD). In un articolo pubblicato lo scorso anno sulla rivista Nature un gruppo di pediatri e statistici evidenziano una «rilevanza significativa» delle diagnosi ASD su bambini tra i 6 e gli 11 anni nelle zone prossime all’impianto: le diagnosi registrate nei comuni di Taranto e di Statte, che sono i più vicini allo stabilimento di Acciaierie d’Italia, sono infatti superiori rispetto alla media degli altri 27 comuni della provincia (9,58 diagnosi ogni 1000 bambini contro 6,66). Lo studio si basa sulle diagnosi segnalate al sistema scolastico per l’anno 2020.
Una targa con scritto «Nei giorni di vento nord-nord/ovest veniamo sepolti da polvere di minerale e soffocati da esalazioni di gas provenienti dalla zona industriale “Ilva”. Per tutto questo gli stessi “maledicono” coloro che possono fare e non fanno nulla per riparare» (Francesco Gaeta/il Post)
Quasi a risarcimento, a Taranto sono arrivati o stanno arrivando molti soldi, da fonti e con obiettivi diversi. Gli obiettivi comuni sono sempre ripulire l’ambiente, realizzare o completare alcune infrastrutture, creare nuovo lavoro alternativo alla siderurgia. Ci sono 800 milioni di euro dal fondo europeo sulla transizione verde (Just Transition Fund, JTF) per promuovere il passaggio a una economia “ambientalmente neutra”. Dal Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) arriverà circa 1 miliardo e mezzo per scuole, ospedali e trasporti. Altri 1,4 miliardi sono previsti dal Contratto integrato di sviluppo (Cis), uno strumento di politica economica finanziato con fondi europei che vorrebbe favorire la riqualificazione urbana e rafforzare le infrastrutture del territorio. Ci sono ancora 216 milioni destinati alle bonifiche ambientali a terra e a mare. E altri 300 milioni destinati a finanziare i Giochi del Mediterraneo, che si svolgeranno qui nell’agosto dell’anno prossimo.
Sono somme inedite nella storia di questa città. Secondo Lidia Greco, che all’università di Bari insegna Sociologia dei processi economici e del lavoro, Taranto ha una grande occasione: «Uscire da un assetto novecentesco, cioè basato sull’industria pesante, e cambiare modello di sviluppo. È avvenuto in altre zone del mondo affini a questa, come alcune aree della Germania del Nord che hanno puntato sulle energie rinnovabili e altre del Regno Unito». Oltre all’acciaieria, l’industria pesante di Taranto si è basata fin qui su altri quattro centri, tutti in difficoltà per motivi diversi: l’Arsenale della Marina Militare, il più grande del Sud Italia che è in calo di commesse e occupati; la raffineria Eni, che fa i conti con la transizione energetica; il cementificio ex Cementir e poi Italcementi, che ha chiuso nel 2023; il porto, il più vasto del Sud e che, pur dotato di buone infrastrutture, impiega oggi un numero limitato di addetti.
Il risultato è che malgrado questo passato e un potenziale economico dato da una posizione molto favorevole per il trasporto marittimo, i tassi di occupazione sono tra i più bassi della Puglia, circa 7 punti in percentuale in meno rispetto alla media (43,2 contro 50,7). Nella provincia si contano attualmente 17 crisi industriali, tolta quella dell’acciaio. I casi più recenti di fallimento sono nel tessile, con due grandi marchi che avevano investito in comuni limitrofi e hanno poi chiuso.
Taranto è anche penultima in Puglia per quota di investimenti dei fondi europei destinati allo sviluppo e alla creazione di impresa. Secondo Leo Caroli, che guida la task force della Regione sull’occupazione, c’è una ragione precisa: «I fondi europei richiedono progetti ad alto tasso di innovazione industriale e Taranto fatica a proporne. A pesare è l’assenza di una università, che collabori con le imprese sui comparti più avanzati». In città esistono alcuni corsi dell’università di Bari e l’unico vero ateneo, peraltro di antica tradizione, è il Conservatorio di musica. Nei mesi scorsi però è nato un Tecnopolo, cioè una fondazione a partecipazione pubblica che nelle intenzioni del governo farà ricerca applicata nei settori della «energia pulita, economia circolare e decarbonizzazione dei processi industriali».
Al momento, insomma, il problema non sono le risorse economiche: il punto è cosa farne e in quali tempi. Su questo Taranto sembra una città in affanno, al punto che molte strutture importanti sono state commissariate: su alcuni problemi ha bisogno di figure dotate di poteri “straordinari” per fare fronte a compiti e scadenze che spetterebbero ad altri soggetti. Oltre ai commissari che gestiscono Acciaierie per l’Italia, c’è un commissario per i Giochi del Mediterraneo del 2026, che si è reso necessario perché i tempi di realizzazione delle infrastrutture erano in grande ritardo.
«Sono stati persi quattro anni e mezzo» dice Massimo Ferrarese, in carica dal novembre del 2023. Dovrà realizzare impianti sportivi costosi, con ampie capienze e tecnologie avveniristiche che si spera possano poi «attirare un turismo sportivo anche dal nord». C’è poi un commissario governativo alle bonifiche ambientali, Vito Uricchio: si occupa di un’area di 564 chilometri quadrati, ma non ha competenza sulla parte più inquinata della città, quella dell’impianto siderurgico. Dice che «spetta alla proprietà dell’azienda», cioè al momento il governo italiano.
Ci sono poi difficoltà legate alle scadenze. La più importante riguarda il fondo europeo Just Transition Fund (JTF): dei circa 800 milioni disponibili, il 70 per cento deve essere speso entro dicembre dell’anno prossimo. «Ci sembra una tempistica molto ambiziosa, quasi impossibile: l’attuazione del piano procede a rilento» commenta Massimo Ruggieri, che fa parte di Giustizia per Taranto, una delle tante e piuttosto attive associazioni ambientaliste della città. Il rischio è che certi fondi non vengano spesi o siano dirottati su altri obiettivi che poco hanno a che fare con la transizione a un’economia più sostenibile. «La città è da anni in cronica emergenza. E l’emergenza serve a chi non vuole cambiare il suo modello di sviluppo».
Nei giorni scorsi il ministro delle Imprese e del Made in Italy Adolfo Urso ha presentato a Roma un piano di 15 progetti industriali per Taranto. Si è detto che potrebbero dar lavoro a oltre 5.000 persone. Sulla carta sono su settori innovativi, dalle energie rinnovabili alla cantieristica navale, all’intelligenza artificiale.
A Taranto si guarda alla cosa con interesse, ma anche con qualche cautela. Vincenzo Cesareo, presidente della Camera di Commercio (l’ente a cui sono iscritte le aziende di un territorio, che le rappresenta e sostiene collettivamente), dice che bisogna «fare in modo che gli investimenti che arrivano da aziende esterne possano essere fatti in partnership con quelle locali. Si deve creare sviluppo e lavoro sul territorio».
È presto per dire se questi progetti si riveleranno semplici annunci o qualcosa di concreto. Taranto sembra in ogni caso presa in un dilemma più vasto di quello tipico di ogni società industriale, che è coniugare lavoro e ambiente. «Siamo alle prese con un trilemma» dice Lidia Greco. «Questa città deve tenere assieme crescita economica, ambiente ed equità sociale. La crescita deve essere giusta, non bisogna lasciare indietro nessuno. Qui occorre saper fare politica economica ma anche politica sociale». Per uscire da una lunga fase di emergenza e non essere più una città sospesa dovrà tracciare il percorso più dritto e rapido possibile tra questi tre punti: produzione, ambiente ed equità sociale. L’obiettivo è non essere più ostaggio della produzione di acciaio, che oggi è un costo collettivo molto superiore rispetto alla somma degli utili di chi ne trae uno stipendio.
***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****
Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link