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I salari bassi, la crescita debole e un “patto” nato zoppo


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Si è parlato già di “patto di Bologna” per la consonanza di vedute (e di interessi) registrata martedì, all’assemblea di Bologna, tra la Confindustria padrona di casa, il governo Meloni e il Parlamento Europeo nella persona della sua presidente, Roberta Metsola, maltese del Partito popolare. Peccato che sia un patto nato zoppo. Nel senso che alla “gamba”, anche condivisibile, delle critiche in serie fatte dai tre soggetti alle miopie di certe scelte politiche prese negli ultimi anni a Bruxelles, che hanno innescato il declino di intere filiere produttive a cominciare da quella delle auto, ne va affiancata un’altra di cui – ancora una volta – si è faticato invece a scorgere tracce nella relazione del presidente Emanuele Orsini: il supplemento di impegno diretto degli imprenditori italiani, ovvero cosa possono fare loro per migliorare quella che tecnicamente si chiama produttività totale dei fattori. Orsini ha lanciato un appello a dar vita a un nuovo grande patto tra forze politiche e sociali, necessario per rispondere alle sfide poste da un contesto storico profondamente mutato.

La sua agenda è stata però segnata anche da una richiesta certamente non nuova: il ritorno a una forte stagione di contributi a carico del bilancio pubblico, quantificati in 8 miliardi di euro annui per più anni, per dare un sostegno forte agli investimenti più innovativi e per tentare così di risollevare una crescita sin troppo asfittica da lungo tempo. Giustamente Orsini ha ricordato i condizionamenti posti dal debito pubblico in eredità, sottolineando tuttavia che «sia più un problema di metodo che di risorse». E in questo metodo si annida il punto. Correttamente il presidente di viale dell’Astronomia ha indicato l’esigenza delle imprese di un indirizzo pluriennale di stabilità, per non dover rivedere ogni anno i propri piani in base alle misure della Legge di bilancio di turno; altrettanto correttamente ha sottolineato l’obiettivo di combattere le farraginosità degli eccessi di regole e le pastoie burocratiche di una Unione Europea che, in questi decenni, non sempre ha creato un contesto favorevole alla vita e allo sviluppo di chi fa impresa. Osservazioni buone anche per solleticare gli interlocutori politici, come appunto la premier Meloni, leader di uno dei Paesi fondatori dell’Ue, ma anche capofila di una parte d’Europa che prova ad alzare una voce alternativa nel continente e a fissare nuove priorità; una voce di cui peraltro c’è bisogno per edificare una governance rinnovata dell’Europa che, in una alleanza tutta da ricostruire fra gli Stati, sappia integrare le varie visioni (e interessi) senza soccombere del tutto a una sola, come è successo negli ultimi tempi davanti a talune istanze per l’ambiente, trasformate troppo acriticamente in un’ideologia da abbracciare a senso unico.

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Tutto ciò, in ogni caso, corrisponde solo a una fetta della realtà. C’è poi tutta un’altra parte, più o meno omessa e sulla quale gli imprenditori devono far sentire il loro pensiero. Una parte costituita di quello che si potrebbe fare per meglio tutelare la perdita del potere d’acquisto dei salari, ormai storico tallone d’Achille del sistema italiano su cui troppo poco Confindustria ha detto di nuovo (vedi anche la politica del muro contro muro sul contratto dei metalmeccanici), al di là del generico accenno alla detassazione dei premi di produttività, altra misura peraltro a carico del bilancio pubblico. E, ancor più, degli sforzi da mettere in campo per risollevare una produttività che, specie dal Duemila in poi, in Italia ha invertito la rotta, con una crescita media di circa un punto l’anno inferiore rispetto ai Paesi “rivali” in Europa. Una tendenza che non si può addebitare solo a una generica scarsa qualificazione dei lavoratori. È anche e soprattutto su questo che si dovrà misurare la responsabilità, il coraggio e la determinazione di cui Orsini ha parlato. Specie in un’era segnata dall’ingresso sempre più massivo dell’intelligenza artificiale che, qualora non governata, potrà tradursi in un’ulteriore perdita di posti di lavoro. Tutto ciò comporta la necessità di elaborare nuovi paradigmi industriali. Salari e crescita non possono restare nodi irrisolti. Purtroppo, anche nel dibattito politico, le misure per scioglierli restano invece relegate ai margini.





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