Se l’istruzione tecnica forma ancora la classe dirigente è la questione sulla quale dovrebbero concentrarsi coloro che si occupano di politiche scolastiche, a partire dai ‘riformatori’ dell’istruzione tecnica, comprendendo anche quella terziaria degli Istituti tecnologici superiori (ITS). È però un tema da indirizzare anche a tutta la società, dal mondo dell’economia e del mercato del lavoro a chi si occupa della governance del complessivo sistema Paese.
Ci poniamo la questione perché abbiamo sempre bisogno di una classe dirigente e ancor di più nel “Manufacturing avanzato” che, con i suoi servizi associati, è il perno della nostra economia industriale e di quella mondiale. D’altra parte, non dobbiamo dimenticare che siamo ancora la seconda manifattura in Europa con un bisogno vitale di rimanerci: occorre quindi attivare tutte le azioni necessarie per sostenere e innovare l’economia delle nostre imprese, rafforzandone la competitività, sostenendo il mercato del lavoro, riducendo la precarietà e la sottoccupazione improduttiva.
Tutto questo è il viatico fondamentale per il nostro welfare, a partire dal mantenimento del nostro sistema previdenziale. C’è bisogno di incrementare significativamente le ore lavorate con professionalità capaci di generare maggior valore economico e sociale, e quindi con salari adeguati che, oltre a favorire la domanda interna, determinano maggiori versamenti nelle casse previdenziali dell’Inps, necessari per pagare le pensioni senza gravare ulteriormente sulla fiscalità generale. Tutto ciò richiede un buon funzionamento del sistema economico industriale (da più di due anni non gode di buona salute) che necessita delle giuste competenze e conoscenze professionali, sotto la guida della classe dirigente.
L’ampio raggio dell’istruzione tecnica
Si è sempre detto che l’istruzione tecnica ha formato la classe dirigente dell’economia industriale del passato, quella che ha permesso lo sviluppo dell’industria italiana e che ci ha portati a essere la seconda manifattura in Europa. Ancora oggi, quello che più modernamente è definito il “management delle nostre imprese”, ha una percentuale rilevante di provenienza dalle scuole tecniche e professionali, non solo per le posizioni manageriali, molte sono di Middle management, ma anche per ruoli imprenditoriali, riferendoci soprattutto alle piccole imprese.
Va però specificato che cosa si intende per istruzione tecnica e per professioni tecniche, cercando di andare ben oltre la dimensione riduttiva della sola filiera produttiva industriale che non fa comprendere l’estensione complessiva del settore. Nell’istruzione tecnica si deve comprendere tutto l’ordinamento scolastico, facendo rientrare anche l’istruzione terziaria, che si deve occupare della cultura generale e professionale (tecnico e organizzativa) di cui ha bisogno il sistema economico industriale del Paese.
Significa dunque rappresentare le aree lavorative della ricerca e sviluppo, dell’innovazione e della progettazione; quella della promozione, vendita e post vendita; quella della produzione, manutenzione, Supply chain; quella amministrativa, dell’organizzazione, dello sviluppo e della gestione delle risorse umane; quella della strategia; quella della gestione e manutenzione del patrimonio; e altre ancora. È palese che siamo in presenza di un orizzonte molto ampio di attività che è il campo di lavoro delle professioni tecniche. Quest’ultime, infatti, costituiscono i mestieri che servono al Paese, con mutazione, spesso volte significativa, della loro employability.
Tutelare la cultura dirigenziale italiana
Per la costruzione della conoscenza, per la cultura sia umanistica sia professionale e manageriale si deve occupare, a partire delle sue fondamenta, l’istituzione scolastica, che lascerà poi il testimone all’industria della conoscenza che provvederà al lifelong learning. Il complessivo sistema economico e sociale composto dalle imprese ha però sempre bisogno di una governance, con un sistema manageriale a diversi livelli di responsabilità, di cui una parte determinante è quella che compone la classe dirigente del Paese.
Per questa classe manageriale, si tratta di professioni ‘dirigenziali’ dove la componente professionale è basata su un articolato profilo di competenze di management, nelle più diverse dimensioni: strategiche, commerciali, industriali, logistiche, gestione del territorio, finanziarie, amministrative, ecc. L’insieme di queste competenze manageriali, ovviamente categorizzate in tutte le loro sottodimensioni, individuano e rappresentano la cultura dirigenziale del Paese, quella che dovremmo costantemente manutenere, produrre, innovare e incrementare, avvalendoci anche di una adeguata, coerente, responsabile e competente politica scolastica.
A questo punto c’è da chiedersi se l’attuale istruzione tecnica – comprendendo anche quella professionale e gli ITS ancora in corso di svezzamento – continui ad assolvere alla produzione di quelle conoscenze che devono continuare a formare la managerialità dei nostri tecnici, e quindi una parte della classe dirigente del Paese. La domanda ha una sua precisa ragione, perché l’istruzione tecnica, assieme a quella professionale, nell’immaginario collettivo, ma anche nella realtà dei fatti, è considerata un percorso di istruzione di serie B (se non di serie C), che si contrappone ai percorsi di ‘serie A’ delle scuole liceali.
Intanto a livello generale la scuola italiana è stata definita del Censis come la “fabbrica degli ignoranti”: l’impietoso giudizio è legato all’elevata percentuale di non raggiungimento degli obiettivi minimi di apprendimento, che si estende dagli studenti della scuola media ai diplomandi delle scuole professionali e anche tecniche, dove gli indici di ‘ignoranza’ hanno raggiunto valori molto allarmanti. È allora doveroso chiedersi se in questa istruzione tecnica si creino le basi per formare ancora la classe dirigente del Paese, necessaria per rimanere la seconda manifattura in Europa. La risposta non può essere positiva. Il problema, nei suoi effetti, va oltre la débâcle dei risultati scolastici e per la sua soluzione vanno coinvolti altri stakeholder.
Insegnare a ‘comunicare bene’
Nel frattempo, mentre al tavolo delle riforme si parla dei nuovi saperi professionali, sui media s’infittisce il dibattito di chi si occupa delle materie umanistiche che, nell’istruzione tecnica, sono considerate un orpello poco importante del complessivo piano di studio. Di recente sul Corriere della Sera, Marco Ricucci, docente di italiano delle scuole superiori, nell’articolo dal titolo “Emergenza italiano, basta con gli stessi programmi uguali per tutti: una cosa sono i licei, un’altra i professionali”, ha scritto: “Mentre nei licei si può mantenere il vecchio impianto storicistico, purché molto snellito, nelle altre scuole superiori sarebbe meglio concentrarsi su una scelta di testi del Novecento che i ragazzi possano sentire più vicini a loro”. L’autore ha sottolineato che: “Come insegnare la lingua e la letteratura italiana ai giovani è una questione tanto importante quanto complessa, perciò va maneggiata con molta cautela”.
A partire dagli istituti professionali citati da Ricucci, il problema non è solo ‘come’ insegnare la lingua e la letteratura italiana, ma ‘come’ si dovrebbe scegliere il che ‘cosa’ insegnare. Se non ci si immagina il ‘contesto’ di vita e di lavoro in cui saranno inseriti, per esempio, i diplomati delle scuole tecniche e professionali – compresi anche i diplomati dell’istruzione terziaria che dovrebbero essere la punta di diamante – è un po’ complesso comprendere quale cultura generale, a partire da quella umanistica, debbano possedere.
Mentre si dibatte sui nuovi saperi e sulle nuove competenze che riguardano l’area della professione, cercando di ridefinire l’analisi dei bisogni formativi coerenti con i bisogni prestazionali, non risulta che tra le prestazioni prese in considerazioni che ci siano quelle che emergono dal contesto sociale che genera l’esercizio del mestiere, ossia il saper comunicare correttamente, che tra l’altro è una core competence per chi si occupa di management. L’esercizio della maggior parte delle professioni tecniche nell’epoca del Manufacturing avanzato, in una economia globale competitiva e complessa, comporta tra gli attori un sistema di relazioni e di socializzazione molto importante, che richiede il possesso e l’uso di una cultura umanistica specifica per quel settore, ma sempre molto solida, che deve prioritariamente essere costruita dal mondo della scuola.
In merito all’obsolescenza dei programmi scolastici – per esempio: elettronica, meccanica e automazione industriale – si dà sempre per scontato che quelli legati alle materie umanistiche debbano rimanere immutati nel tempo. Va aggiunto che le professioni tecniche, che originano in gran parte nell’istruzione tecnica e professionale, sono le professioni con la più alta necessità di relazioni, comunicazioni e di socializzazione, proprio per la conformazione dell’economia delle nostre imprese e del mercato in cui si va a operare. In tal caso non è sufficiente conoscere le lingue straniere: prima di tutto va conosciuta la lingua e la cultura italiana e ben praticata.
L’autore dell’articolo dice ancora: “Nella scuola secondaria superiore italiana tutti gli indirizzi affrontano, ancora oggi, lo stesso programma di italiano, con l’obiettivo di ripercorrere la storia della letteratura secondo un’impostazione storicistica. Ma ha davvero senso?”. Certamente non ha senso, ma anche per una ragione molto chiara: non si è mai fatta nessuna analisi dei bisogni di formazione di quelle che chiamiamo le ‘materie umanistiche’.
Poi Ricucci aggiunge: “La verità è che serve un cambio di rotta. Nei licei, dove il profilo culturale degli studenti lo consente, si può mantenere un percorso storico-letterario, purché sintetico ed essenziale mentre nei tecnici e nei professionali, invece, bisogna rivedere completamente l’approccio e lavorare su scrittura argomentativa, comprensione del testo, analisi critica, usando racconti e romanzi del Novecento, oppure passi di autori antichi, parafrasati in un italiano corrente e pienamente accessibile”. Solitamente sfugge, a chi si occupa negli ordinamenti scolastici della definizione delle materie letterarie, e quindi anche dell’italiano, quale tipologia di conoscenza letteraria e di scrittura siano richieste alle professioni tecniche.
La necessaria azione dei riformatori
Nell’immaginario collettivo, quello che considera le scuole tecniche e professionali di serie B e che è diventato il filone orientativo prevalente usato dal mondo della scuola, sfugge completamente l’immensa e articolata produzione documentale di cui si devono fare carico le professioni tecniche. Certamente è una produzione che si regge su una scrittura argomentativa che attinge a tanti ambiti disciplinari e che deve avere una grande efficacia per comunicare notizie tecniche, commerciali e di altra natura a una popolazione molto vasta. Non si dimentichi, infatti, che alle professioni tecniche compete anche scrivere manuali tecnici, relazioni tecniche, perizie, documenti promozionali e commerciali e tanto altro ancora, dove la dimensione argomentativa e l’analisi critica dei testi rappresentano i pilastri fondanti. Queste differenze sono ancora abbastanza sconosciute.
Allora è un errore questa considerazione: “Nella nostra società iperconnessa, i nativi digitali hanno gioco facile a considerare la scrittura come un mezzo obsoleto e quasi anacronistico, in un mondo in cui la complessità è banalizzata in modo virtuale”. Se anche alle nuove generazioni si aprirà la prospettiva dell’istruzione tecnica per diventare parte della classe dirigente del Paese, sarà gioco forza che nell’esercizio di quelle professioni ci sia necessariamente un ampio uso scritto e parlato, e in diverse modalità, della lingua italiana.
Il problema deve allora essere risolto dai ‘riformatori’ della scuola, che nell’analisi dei bisogni formativi di una nuova istruzione tecnica, devono ridefinire anche una nuova cultura umanistica e di conoscenza dell’uso della lingua italiana, sapendo però di che c’è bisogno. Anche le materie umanistiche, così come le materie tecnico-professionali, sono sottoposte all’obsolescenza dei loro contenuti.
Perito elettronico e laureato in Ingegneria Elettronica al Politecnico di Milano, è Maestro del Lavoro. Le prime esperienze lavorative sono nel campo dei sistemi di controllo. Nello stesso periodo, per nove anni, è anche docente di elettronica industriale presso un importante istituto tecnico serale. Contemporaneamente inizia la sua attività presso una società di un gruppo tedesco, leader mondiale nella componentistica per l’automazione industriale nonché partner del governo della Germania per la costruzione del modello duale della formazione professionale. Successivamente diventa Direttore Generale e Amministratore Delegato di una nuova società del gruppo che si occupa di consulenza strategica e operativa nelle aziende industriali a cui appartiene una scuola di Industrial Management e una divisione per i sistemi di apprendimento. È stato pioniere delle prime iniziative di formazione applicata superiore nazionali e transnazionali. Ha intrattenuto rapporti con molti istituti tecnici e istituzioni pubbliche ed è stato promotore e attore di iniziative riguardanti l’evoluzione delle professioni tecniche. Ha terminato la sua attività professionale nella posizione di Vice President del gruppo internazionale, per il settore della Global Education, occupandosi dell’interconnessione tra economia e mercato del lavoro per la progettazione e realizzazione di sistemi TVET per governi di Paesi in via di sviluppo.
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