Il Governatore della Banca d’Italia, Fabio Panetta, ha parlato nel corso della presentazione della Relazione annuale sul 2024
“L’annuncio di dazi elevati sembra essere utilizzato come leva negoziale per ridefinire i rapporti economici e politici internazionali. Si tratta, tuttavia, di una strategia che può comportare effetti difficili da prevedere e da gestire”. Lo ha detto il Governatore di Bankitalia, Fabio Panetta, nel corso della presentazione della Relazione annuale della Banca d’Italia.
I DAZI DEGLI STATI UNITI
“I dazi attualmente in vigore negli Stati Uniti, sebbene inferiori a quelli annunciati all’inizio di aprile, restano i più elevati del secondo dopoguerra e sono causa del sensibile aumento dei dazi medi a livello mondiale. Il loro impatto potenziale è oggi molto maggiore rispetto al passato, a causa della stretta integrazione dell’economia globale. L’inasprimento delle barriere doganali potrebbe sottrarre quasi un punto percentuale alla crescita mondiale nell’arco di un biennio. Negli Stati Uniti, l’effetto stimato è circa il doppio. I dazi potrebbero comportare una minore domanda di lavoro e un aumento delle pressioni inflazionistiche, in una fase già caratterizzata da aspettative di inflazione in rialzo. Stanno inoltre incidendo negativamente sulla fiducia di famiglie e imprese, con possibili ripercussioni su consumi e investimenti. Il susseguirsi di annunci, smentite e revisioni alimenta incertezza e volatilità sui mercati”.
IL DISAVANZO COMMERCIALE DEGLI USA
“Si tratta di condizioni che rischiano di amplificare l’effetto dei dazi e che potrebbero protrarsi nel tempo, considerata la complessità dei negoziati commerciali, che tipicamente richiedono tempi ben più lunghi dei 90 giorni di sospensione annunciati. È improbabile che l’innalzamento delle barriere doganali riesca a correggere l’ampio disavanzo commerciale degli Stati Uniti, che riflette principalmente squilibri legati alla forte domanda interna in un’economia prossima alla piena occupazione. Una correzione richiederebbe una riduzione dei consumi o degli investimenti, cui farebbe riscontro un minore afflusso di capitali dall’estero.
GLI EFFETTI DEI DAZI SULL’ECONOMIA GLOBALE
Nel medio termine, gli effetti dei dazi sull’economia globale dipenderanno dalla capacità di paesi e imprese di riorientare gli scambi internazionali e costruire nuove relazioni commerciali. Le aziende cinesi, ad esempio, stanno rafforzando la propria presenza all’estero, facendo leva su vantaggi tecnologici e adottando politiche di prezzo aggressive per smaltire l’eccesso di capacità produttiva. Le politiche protezionistiche stanno spingendo l’economia mondiale su una traiettoria pericolosa. I dazi oggi in vigore potrebbero ridurre il commercio internazionale di circa il 5 per cento, dando avvio a una riconfigurazione delle filiere produttive globali”.
“Ne deriverebbe un sistema di scambi meno integrato e meno efficiente. Gli effetti rischiano di travalicare la sfera commerciale, alterando la struttura del sistema monetario internazionale, oggi incentrato sul dollaro, e limitando i movimenti dei capitali. Potrebbero spingersi oltre, frenando la circolazione di persone, idee e conoscenze. L’indebolimento della cooperazione globale, anche in campo scientifico e tecnologico, finirebbe per ridurre gli incentivi all’innovazione e ostacolare il progresso. A lungo andare, verrebbero compromessi i presupposti stessi della prosperità condivisa. Ma il rischio più profondo è un altro: che il commercio, da motore di integrazione e dialogo, si trasformi in una fonte di divisione, alimentando l’instabilità politica e mettendo a repentaglio la pace”.
PANETTA: IRRISOLTO IL NODO DEGLI ALTI COSTI DELL’ENERGIA DA CONCILIARE CON DECARBONIZZAZIONE
“La manifattura – ha spiegato Panetta – resta una componente rilevante dell’economia europea, dove rappresenta il 15 per cento del PIL – il 20 in Germania – contro il 10 negli Stati Uniti. La concorrenza dei paesi emergenti sta però erodendo il vantaggio competitivo europeo, anche nei settori a tecnologia intermedia e avanzata, mettendo a rischio la tenuta di intere filiere produttive. In particolare, la Cina continua ad accrescere la propria quota nella manifattura mondiale, combinando tecnologia, bassi costi e un saldo controllo delle catene del valore”.
“Nei servizi, il surplus con l’estero dell’Europa – pur rilevante – deriva da comparti tradizionali come il turismo e i trasporti, mentre negli Stati Uniti è trainato dalla specializzazione digitale. Rimane irrisolto il nodo degli alti costi dell’energia. Dopo l’invasione dell’Ucraina, quelli sostenuti dalle industrie europee sono aumentati sensibilmente, ampliando il divario con le altre principali economie. Alla metà del 2024, il costo dell’elettricità risultava doppio rispetto a Stati Uniti e Cina, e superiore di un quinto rispetto al Giappone. Questo svantaggio penalizza gli investimenti e compromette la competitività, accrescendo il rischio di delocalizzazione. È necessario agire con determinazione per conciliare il contenimento dei costi energetici con il processo di decarbonizzazione. La Commissione europea ha recentemente proposto misure che vanno in questa direzione. Tuttavia, come ho ricordato in passato, una transizione efficace deve tener conto anche degli aspetti sociali e delle esigenze produttive, raggiungendo il giusto equilibrio tra ambizione e fattibilità”.
UE, PANETTA: SERVONO INTERVENTI RAPIDI E INFRASTRUTTURALI FINANZIATI CON UN TITOLO PUBBLICO EUROPEO
Secondo il governatore di Bankitalia, “l’economia europea ha bisogno di interventi rapidi e strutturali. Serve un programma di riforme basato sulle proposte già disponibili a livello europeo, sostenuto da risorse adeguate e scandito da tempi certi. Vanno eliminate le residue barriere interne alla circolazione di beni, capitali e persone. Occorre investire in tecnologia, infrastrutture comuni e settori ad alto potenziale di sviluppo. In un contesto globale instabile, la priorità è rafforzare l’autonomia strategica. Il programma della Commissione europea per la legislatura, la Bussola per la competitività, va nella giusta direzione, ma non affronta il nodo cruciale del reperimento delle risorse”.
“Secondo diverse stime, saranno necessari 800 miliardi di euro all’anno fino al 2030 per sostenere la transizione verde e digitale e rafforzare le capacità di difesa. Un ammontare ingente, che tuttavia copre solo parte del fabbisogno complessivo. Per rendere l’Europa davvero competitiva serviranno investimenti ancora più consistenti. Un impegno di tale portata non può gravare unicamente sui bilanci nazionali, né essere affidato solo al settore privato. Come ho recentemente sostenuto, serve un vero e proprio patto europeo per la produttività. Da un lato, il settore pubblico è indispensabile per finanziare beni comuni europei – dalla sicurezza energetica alla difesa, fino alla ricerca di base – e per sostenere iniziative con benefici diffusi, ritorni dilazionati nel tempo ed esiti più incerti.
L’IMPORTANZA DEI CAPITALI PRIVATI
Dall’altro lato, è fondamentale mobilitare capitali privati per finanziare progetti imprenditoriali innovativi. Per farlo – ha proseguito il Governatore -, è urgente completare la costruzione di un mercato dei capitali europeo pienamente integrato, capace di indirizzare il risparmio verso investimenti a lungo termine e ad alto rendimento atteso, anche attraverso lo sviluppo di fondi di venture capital e private equity su scala continentale. Ciò richiede interventi normativi. Ma per eliminare alla radice la frammentazione del mercato dei capitali lungo linee nazionali è cruciale introdurre un titolo pubblico europeo, con un duplice obiettivo: finanziare la componente pubblica degli investimenti e fornire un riferimento comune, solido e credibile all’intero sistema finanziario”.
UN MERCATO DEI CAPITALI INTEGRATO
“Secondo nostre stime, un mercato dei capitali integrato, con al centro un titolo comune europeo, ridurrebbe i costi di finanziamento per le imprese, attivando investimenti aggiuntivi per 150 miliardi di euro all’anno e innalzando, a regime, il prodotto dell’1,5%. L’effetto sul PIL potrebbe risultare fino a tre volte maggiore, se i nuovi investimenti fossero destinati a progetti ad alto contenuto tecnologico. Questo effetto sarebbe tanto più rilevante quanto più un mercato unico dei capitali liquido, articolato e capace di offrire migliori opportunità di diversificazione saprà attrarre risorse dall’estero. L’esperienza di Next Generation EU dimostra che è possibile emettere debito comune per finanziare un piano ambizioso di investimenti europei, senza dover creare un’unione fiscale o istituire un Ministero delle Finanze europeo”, ha concluso Panetta.
GLI ALTI COSTI ENERGETICI NELL’INDUSTRIA
“Nonostante le difficoltà attuali – ha proseguito Panetta nel suo discorso – l’industria italiana non è destinata al declino. In tutti i comparti operano aziende dinamiche e competitive, che investono in tecnologia e ricerca e si posizionano in fasce di alta gamma. Queste solide fondamenta rappresentano un vantaggio strategico nella competizione globale, ma vanno rafforzate.
Le imprese devono proseguire nel percorso di innovazione e investimento, sostenute da politiche pubbliche che le mettano nelle condizioni di affrontare con successo le trasformazioni in atto. In Italia, più che altrove in Europa, è urgente intervenire sul costo dell’energia, seguendo le direttrici già tracciate: ampliando il ricorso a fonti pulite, incentivando i contratti a lungo termine e rafforzando infrastrutture e reti di trasmissione35. Servono investimenti adeguati e una netta semplificazione delle procedure autorizzative per i nuovi impianti”.
PANETTA SUL PNRR
“L’azione pubblica può sostenere l’accumulazione di capitale attraverso investimenti infrastrutturali e la creazione di un contesto favorevole all’attività di impresa. È questa la logica che ispira il Piano nazionale di ripresa e resilienza (PNRR). In relazione al Piano, l’Italia ha finora ricevuto 122 miliardi di euro e ne ha utilizzati oltre la metà. Il pagamento delle prossime rate dipenderà. dal raggiungimento di obiettivi relativi alla realizzazione di opere pubbliche; a tale riguardo, i dati attualmente disponibili suggeriscono l’esistenza di ritardi. L’utilizzo dei fondi del PNRR ha sostenuto l’economia negli ultimi anni. Gli interventi previsti per il biennio 2025-26 potrebbero innalzare il prodotto dello 0,5%.
In una fase di debolezza ciclica è essenziale procedere con determinazione nella loro attuazione. Quanto alle riforme, negli ultimi quindici anni le misure di liberalizzazione dei mercati e di semplificazione amministrativa hanno rafforzato il tessuto economico. Il contesto istituzionale è migliorato: anche grazie alle riforme organizzative della giustizia civile, la durata dei processi in materia contrattuale si è ridotta di un terzo; la digitalizzazione della Pubblica amministrazione, promossa dal PNRR, ha reso i servizi pubblici più accessibili e le procedure di aggiudicazione delle opere più efficienti e trasparenti. L’azione di riforma richiede tempo e continuità, e dovrà proseguire oltre la scadenza del PNRR. Le priorità restano quelle indicate nel Piano strutturale di bilancio per il prossimo quinquennio: ambiente imprenditoriale, Pubblica amministrazione, giustizia e sistema fiscale”.
TRA IL 2019 E IL 2022 DIFFERENZIALE PREZZO PAGATO DA IMPRESE ITALIANE RISPETTO A MEDIA EUROPEA SI È AMPLIATO
“Già prima della crisi i prezzi dell’elettricità in Italia erano superiori a quelli medi degli altri principali Paesi europei, anche a causa di un maggiore peso della tassazione. Mentre i prezzi pagati dalle imprese con consumi elevati erano in linea con la media europea, lo svantaggio era consistente per le imprese con consumi energetici più contenuti, che risentivano di imposte e oneri piuttosto alti e di un minore potere di mercato nella negoziazione con i fornitori”. È quanto si legge nella relazione annuale sul 2024 di Bankitalia.
“A fronte degli ingenti e repentini rincari di gas ed elettricità all’ingrosso – si legge nella relazione -, l’impatto sui prezzi al dettaglio per le imprese si è manifestato in modo graduale, grazie alla precedente diffusione fra le aziende di contratti a prezzo fisso per la fornitura di energia. Tale impatto è stato inoltre attenuato dalle misure di sostegno pubblico , quali ad esempio l’azzeramento degli oneri di sistema. Tra il 2019 e il 2022, a seguito di un incremento del prezzo al dettaglio dell’energia elettrica pari all’81%, il differenziale di prezzo pagato dalle imprese italiane rispetto alla media europea si è ampliato”, conclude la relazione.
NEL 2021-2022, CON L’AUMENTO DEI PREZZI, I COSTI DI PRODUZIONE NELLA MANIFATTURA SONO AUMENTATI DEL 4%-5%
“L’impatto complessivo dei rincari energetici sui costi delle imprese dipende da tre fattori: l’incidenza degli acquisti di energia sui costi totali di produzione. I consumi energetici delle imprese sono altamente concentrati, anche all’interno dei settori. Nel 2019 – si legge nella relazione – poco meno di 4.000 aziende energivore (su circa 130.000 industriali) assorbivano circa il 18% e il 15% dei consumi rispettivamente di elettricità e di gas naturale dell’intero Paese. Nonostante l’elevata esposizione allo shock, queste imprese sono riuscite a preservare la propria redditività: nel 2022 hanno trasferito i rincari dell’energia sui prezzi di vendita (incrementandoli del 23%, circa il doppio rispetto alle altre imprese industriali), mantenendo sostanzialmente invariate le quantità vendute. Il rapporto tra margine operativo lordo e fatturato è leggermente aumentato (da 9,5% a 9,8%); sarebbe sceso di 1,5 punti percentuali in assenza delle misure di supporto introdotte per mitigare l’incremento dei costi di produzione.
Nel 2023 i prezzi di vendita sono diminuiti meno dei costi di produzione, che il grado di sostituibilità dell’energia con altri input; l’intensità energetica dei beni intermedi acquistati dai fornitori. Tenendo conto di tutti questi elementi, nostre analisi indicano che durante il biennio 2021-22 l’incremento dei prezzi dell’energia ha determinato una crescita dei costi di produzione nella manifattura compresa tra il 4% e il 5%. L’aumento è stato sostanzialmente più rilevante nei settori ad alta intensità energetica (9,5%, 3% negli altri comparti della manifattura)”, conclude la relazione.
NEL 2024 I PREZZI DELL’ELETTRICITÀ PAGATI DALLE IMPRESE “SI SONO DRASTICAMENTE RIDOTTI RISPETTO AL PICCO DELLA CRISI”
“I consumi energetici delle imprese sono altamente concentrati, anche all’interno dei settori. Nel 2019 poco meno di 4.000 aziende energivore (su circa 130.000 industriali) assorbivano circa il 18% e il 15 % dei consumi rispettivamente di elettricità e di gas naturale dell’intero Paese. Nonostante l’elevata esposizione allo shock – si legge nella relazione -, queste imprese sono riuscite a preservare la propria redditività: nel 2022 hanno trasferito i rincari dell’energia sui prezzi di vendita (incrementandoli del 23%, circa il doppio rispetto alle altre imprese industriali; figura, pannello a), mantenendo sostanzialmente invariate le quantità vendute.
Il rapporto tra margine operativo lordo e fatturato è leggermente aumentato (da 9,5 a 9,8%) ; sarebbe sceso di 1,5 punti percentuali in assenza delle misure di supporto introdotte per mitigare l’incremento dei costi di produzione. Nel 2023 i prezzi di vendita sono diminuiti meno dei costi di produzione, che hanno beneficiato del calo del costo dell’energia. I margini sono quindi cresciuti ulteriormente (10,8 %; 9,6 al netto degli aiuti), ma il calo delle quantità vendute (-8,4%) ha inciso sui profitti totali, che si sono attestati su livelli comunque superiori a quelli pre-pandemici.
Nel 2024 i prezzi dell’energia elettrica pagati dalle imprese italiane si sono drasticamente ridotti rispetto al picco della crisi, pur rimanendo più elevati rispetto al 2019 e alla media Ue. Se si allineassero a quelli sostenuti dalle altre imprese europee, i costi di produzione nella manifattura sarebbero inferiori dell’1%”.
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