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Pace a rischio con i dazi di «Taco Trump», l’impero del dollaro in crisi


Nelle sue considerazioni finali sul 2024 il governatore di Bankitalia Fabio Panetta ha suggerito ieri di non farsi distogliere dalla teoria del «Taco», l’acronimo che sta per «Trump Always Chickens Out», cioè «Trump si tira sempre indietro» davanti alle borse che sprofondano davanti alle sue cialtronate sui dazi. Le reazioni brusche di Wall Street, più che le decisioni dei giudici, sono l’unico modo di fare cambiare idea all’affarista della Casa Bianca. Ma non cancelleranno le tracce di un cambiamento radicale che sta avvenendo al livello del «sistema multipolare e non più multilaterale in cui aumenta il peso dei rapporti di forza». Il problema, ha aggiunto il governatore della Banca d’Italia, è sistemico e riguarda il ruolo del dollaro che è messo in dubbio come architrave degli «equilibri che hanno sorretto l’economia globale negli ultimi decenni» e che ora sono in «crisi profonda».

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La corsa ai dazi innescata da Trump «mette a repentaglio la pace» in prospettiva e ora crea incertezza, come si vede con il governo Meloni congelato e ormai ridotto all’ordinaria amministrazione della ragioneria. Trump però è soprattutto il sintomo di una crisi che sta «incrinando la fiducia a livello internazionale», quello di un capitalismo che si credeva regolato per gli «occidentali» e sta acuendo la loro crisi. Per Panetta i dazi «potrebbero sottrarre quasi un punto percentuale alla crescita mondiale» in due anni e sta «spingendo l’economia globale su una traiettoria pericolosa», mettendo a rischio già oggi il 5% del commercio globale. Non solo: la caduta del dollaro e dei titoli di Stato emessi dal governo federale degli Stati Uniti (i Treasury) innescata il 2 aprile, nonostante gli stop-and-go di Trump sui dazi, «è rimasta invariata» e ciò solleva «interrogativi sull’assetto futuro del sistema monetario internazionale» e sul dollaro «come valuta di riserva e di denominazione degli scambi commerciali».

Questa situazione imporrebbe all’Europa un cambiamento decisivo che non sembra essere tuttavia all’orizzonte. Come tutto l’establishment italiano, e non solo, nella sua relazione di 31 pagine Panetta ieri ha ribadito la visione dell’araba fenice che in molti chiamano «Eurobond», ma può essere chiamato anche «debito comune». «L’esperienza di Next Generation EU – ha detto Panetta – dimostra che è possibile emettere debito comune per finanziare un piano ambizioso di investimenti europei, senza dover creare un’unione fiscale o istituire un Ministero delle Finanze europeo». Il «debito comune» andrebbe inoltre accompagnato dalla creazione di «un mercato dei capitali integrato, con al centro un titolo comune europeo, ridurrebbe i costi di finanziamento per le imprese, attivando investimenti aggiuntivi per 150 miliardi di euro all’anno e innalzando, a regime, il prodotto dell’1,5 per cento. L’effetto sul Pil potrebbe risultare fino a tre volte maggiore se i nuovi investimenti fossero destinati a progetti ad alto contenuto tecnologico. Questo effetto sarebbe tanto più rilevante quanto più un mercato unico dei capitali liquido, articolato e capace di offrire migliori opportunità di diversificazione saprà attrarre risorse dall’estero».

La prospettiva è più suggestiva di quella dell’inquietante von der Leyen, ma è lontana dall’essere realizzabile. E non solo perché il Next Generation Eu che ha finanziato il Pnrr italiano si sta rivelando un fallimento. Lo si vede anche dal piano di riarmo europeo dove la prospettiva del «debito comune» è stata esclusa a favore della via all’indebitamento dei singoli Stati, con una quota minima gli 800 milioni di euro previsti. La costruzione dell’Europa è basata piuttosto sulle capacità fiscali dei singoli Stati, quella della Germania ad esempio, che ha avviato un maxi piano di riarmo e di infrastrutture perché ha un debito che è la metà di quello italiano. Quanto alla creazione del «mercato unico dei capitali» i tempi sono lunghi, le strade tortuose.

La relazione di Panetta è stata significativa perché ha evidenziato ciò che il governo si ostinerà, fino alla fine della legislatura, a equivocare: i salari reali sono al di sotto di quelli del Duemila, nonostante il recupero dallo scorso anno. Il problema dell’industria – che non scomparirà ha assicurato Panetta nonostante un calo da 26 mesi consecutivi – rimane la produttività, nella manifattura come nel resto dell’economia. È una consolazione, in un paese trasformato in un bagnasciuga per turisti, con un costo dell’energia doppio rispetto a Stati Uniti e Cina che mette in ginocchio le imprese e taglieggia i salari in media tra i più bassi d’Europa.



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