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DA PANETTA A ORSINI/ Produzione e crescita, ecco perché Italia (e Ue) stanno agli ultimi posti


Chi ancora nutriva dubbi sul fatto che in Italia più che in altri Paesi è aperta una questione industriale, anzi manifatturiera, dovrebbe rileggere quel che ha detto venerdì scorso il Governatore della Banca d’Italia nelle sue Considerazioni finali alla relazione annuale. Ecco i passaggi fondamentali nel capitolo dedicato alla economia italiana.

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“Nel 2024 il Pil è aumentato dello 0,7 per cento, accompagnato da una situazione occupazionale particolarmente favorevole. Tuttavia, la produttività del lavoro è diminuita e le esportazioni di beni hanno subìto un calo. La domanda interna è cresciuta a ritmi contenuti. Le famiglie hanno mantenuto un atteggiamento prudente, limitando l’espansione dei consumi allo 0,4 per cento, nonostante un incremento dell’1,3 del reddito disponibile. Nella manifattura il valore aggiunto è diminuito dello 0,7 per cento, risentendo anche della crescente concorrenza internazionale. Il resto del settore privato ha invece registrato una crescita dell’1 per cento”.



Dunque, la manifattura non è solo in ristagno, è in regresso. I dazi non c’entrano, non ancora. Se Donald Trump non cambia di nuovo idea, le tariffe sulle esportazioni verso gli Stati Uniti “potrebbero sottrarre quasi un punto percentuale alla crescita mondiale nell’arco di un biennio. Negli Stati Uniti, l’effetto stimato è circa il doppio”, ha detto Panetta.

E ancora: “I dazi potrebbero comportare una minore domanda di lavoro e un aumento delle pressioni inflazionistiche, in una fase già caratterizzata da aspettative di inflazione in rialzo. Stanno inoltre incidendo negativamente sulla fiducia di famiglie e imprese, con possibili ripercussioni su consumi e investimenti. I dazi oggi in vigore potrebbero ridurre il commercio internazionale di circa il 5 per cento, dando avvio a una riconfigurazione delle filiere produttive globali”.

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In Italia, tuttavia, “il problema centrale rimane la produttività – nella manifattura come nel resto dell’economia. Gli incrementi finora conseguiti sono incoraggianti, ma non bastano a sostenere lo sviluppo del Paese. Il basso livello dei salari riflette questa debolezza: fino alla pandemia, l’aumento era stato appena del 6 per cento. Il successivo shock inflazionistico ha riportato i salari reali al di sotto di quelli del 2000, nonostante il recupero in atto dallo scorso anno.

Per garantire un aumento duraturo delle retribuzioni è indispensabile rilanciare la produttività e la crescita attraverso l’innovazione, l’accumulazione di capitale e un’azione pubblica incisiva”.

La produttività del lavoro è troppo bassa anche nell’insieme dell’Ue, sottolinea la Banca d’Italia. “Negli ultimi trent’anni è cresciuta del 40 per cento, oltre 25 punti percentuali in meno degli Stati Uniti. Dal 2019 il divario si è ampliato: in Europa la produttività è aumentata del 2 per cento, contro il 10 negli Stati Uniti, dove è stata sospinta soprattutto dai settori a tecnologia avanzata”.

La difficoltà di innovare è la tara che colpisce l’industria europea nel suo insieme. Ma l’Italia sta peggio. Se prendiamo la spesa in ricerca e sviluppo, l’Italia è indietro rispetto a Francia e Germania e alla media europea come mostra una tabella molto chiara, ciò riguarda il settore pubblico come quello privato.

Martedì scorso era toccato al Presidente della Confindustria lanciare il suo grido di dolore. “Al netto dell’effetto dei dazi, dopo due anni di flessione della produzione, l’industria italiana è in forte sofferenza – ha detto Emanuele Orsini nella sua relazione – È ancora frenata da troppi ostacoli, che riducono la competitività delle imprese rispetto a quelle di Paesi con regole, sistemi fiscali e infrastrutture più favorevoli”.

E ha aggiunto: “Troppo spesso in Italia vengono scambiati i successi delle imprese come effetto di grandi strategie di sviluppo che, invece, non ci sono state. Il nostro Paese e le nostre realtà imprenditoriali hanno tutte le carte in regola per farcela. Ma bisogna cambiare prospettiva. Anzi, ribaltarla”.

Sia Orsini, sia Panetta hanno messo in risalto che ridurre il costo dell’energia è una priorità. Giorgia Meloni ha promesso un intervento anche se non il disaccoppiamento dai prezzi del gas che fanno da riferimento all’intero sistema, come chiesto dagli industriali privati. Su questo c’è un contrasto aperto come le imprese produttrici per lo più pubbliche a cominciare dall’Enel, che appare oggi insormontabile.

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Tuttavia, non bastano interventi settoriali, occorre un vero e proprio piano industriale sul quale Orsini ha chiamato al confronto Governo e parti sociali. In questo ambito va affrontato il problema salariale che è “un problema nazionale”. Colpiva sentirlo dire non dai sindacati, ma dai datori di lavoro.

Confindustria e poi Banca d’Italia: tra martedì e venerdì scorso la politica ha preso atto di quale dovrebbe essere la priorità in questo 2025 nel quale matura l’esigenza di un “cambio di modello” come l’ha chiamato Panetta, in Europa e in Italia. Vedremo se sono state parole nel deserto. Guardando i giornali del giorno dopo sembra di sì, ma non vogliamo essere pessimisti proprio noi. Lasciamo ai gufi le tenebre della notte.

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