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Il soft power delle imprese italiane: cultura e qualità per rilanciare territori industriali e high tech digitale


C’è un vero e proprio soft power che sta alla base della capacità competitiva dell’industria italiana sui mercati internazionali. È fatto di qualità, bellezza e funzionalità dei nostri prodotti, di creatività e innovazione, di design, di cura per la sostenibilità ambientale e sociale. Di una vera e propria “cultura politecnica” capace di originali sintesi tra saperi umanistici e conoscenze scientifiche. E di una straordinaria attrattività del Made in Italy e dell’Italia in generale non solo per gli investimenti finanziari, ma anche per le scelte d’impegno di imprenditori, manager, scienziati, tecnologi e studenti che cominciano sempre più spesso a considerare l’Italia come “the place to be”, parafrasando la brillante definizione data dal “New York Times” su Milano nel 2015, al tempo dello splendore dell’Expo.

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Vale la pena ricordarsene non solo in omaggio intellettuale a Joseph S. Nye, uno dei maggiori politologi dei nostri tempi inquieti, scomparso ai primi di maggio (il soft power come diplomazia culturale, capacità di relazioni positive, attrattività, empatia fondata sulla leva degli interessi e dei valori condivisi, invece dell’esibizione prepotente della forza politica e militare). Ma anche, pragmaticamente, per farne la base di una vera e propria politica industriale italiana in chiave europea, in grado di salvare e rilanciare la nostra manifattura e le economie collegate (servizi high tech, logistica, finanza d’impresa, ricerca scientifica, design e tecnologie, formazione) e di consolidare la nostra anima profonda e ben radicata di grande paese industriale.

Serve infatti un “Piano Industriale Straordinario” per rilanciare l’economia europea e nazionale, per dirla con le parole del presidente di Confindustria Emanuele Orsini all’Assemblea nazionale dell’Associazione a Bologna. Tre o anche cinque anni di investimenti pubblici in infrastrutture materiali e immateriali e di sostegni legislativi e fiscali agli investimenti privati. Tagli robusti al costo dell’energia per le imprese, ben maggiore che nel resto d’Europa e dunque tale da abbattere i nostri margini di competitività. Riforme antiburocrazia a Roma e Bruxelles, ma anche nelle regioni (i “dazi interni” all’Europa, un pesante limite allo sviluppo e all’innovazione). Scelte politiche ed economiche per un vero “Mercato unico” europeo, a cominciare da quello dei capitali e per una maggiore e migliore competitività (il che vuol dire dare rapida attuazione ai Piani firmati da Mario Draghi ed Enrico Letta e presentati e accolti positivamente dalle autorità Ue: un altro esempio del soft power italiano, no?).

Buona politica, insomma, nel doppio e convergente significato di policy e politics (le strategie e i progetti, tradotti poi in atti di governo, leggi, provvedimenti amministrativi). E lungimiranti scelte per avere “più Europa” e una “Europa migliore”, anche dal punto di vista delle regole di governance, più rapide ed efficaci, liberandosi, tranne casi eccezionali, dei vincoli dell’unanimità. E affrontando più risolutamente, semmai, le sfide geopolitiche e tecnologiche in corso, con maggiore spazio per una cultura “europea”, diversa dalle dominanze di Usa e Cina ma forse più equilibrata di fronte agli altri attori della scena internazionale (rieccoci, anche da questo punto di vista, al primato del soft power, a una sua riedizione per questi turbolenti Anni Duemila).

Spostando lo sguardo dalla geopolitica ai problemi e alle qualità competitive delle nostre imprese, si può provare a fare questo ragionamento, sulle caratteristiche del sistema produttivo, un vero e proprio “capitale sociale positivo” che coinvolge manifatture e territori, centri di ricerca e università, radici storiche e costruzione del futuro, un orizzonte da “avvenire della memoria” e di costruzione di fiducia e speranza per le nuove generazioni.

Se ne parlerà, anche quest’anno, al Seminario estivo di Symbola, a Mantova, a metà giugno, seguendo la suggestione di una indicazione strategica e valoriale, “Se l’Italia fa l’Italia”… e parlando di “sostenibilità, Europa e futuro” e dunque di produttività, lavoro, trasformazioni sociali, economia della conoscenza e di Intelligenza Artificiale legata all’impresa, alla ricerca scientifica e alla qualità della vita. Un convengo di persone d’impresa, di cultura e di impegno sociale e civile, né apocalittiche né integrate, ma pronte criticamente ad accettare la sfida del confronto con “la modernità” e con i temi della sicurezza, dello sviluppo, della cultura del mercato e, più in generale, della democrazia economica.

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Proprio il “saper fare” delle imprese, da questo punto di vista, è uno straordinario punto di forza, ancora più prezioso in tempi di difficoltà e tensioni. E va accompagnato da una dimensione complementare, quella del “far sapere”. Costruendo, cioè, un nuovo e migliore racconto delle caratteristiche e delle qualità delle imprese, che valorizzi il loro essere non solo attori economici capaci di reggere le sfide di mercati sempre più selettivi e severi, ma anche attori sociali e culturali, componenti essenziali di una comunità che ha radici nei territori produttivi e sguardo largo sul mondo. Un racconto, ancora, che sappia esprimere il valore di una sintesi originale tra competitività e inclusione, attenzione alla produttività ma anche sofisticata etica d’impresa: una “morale del tornio” che merita una migliore valorizzazione.

Il punto di rilancio sta nel rafforzamento e nello sviluppo di un’idea che da tempo assume peso crescente nella strategia dei valori imprenditoriali e confindustriali: fare impresa significa fare cultura, se cultura è non solo letteratura e arti figurative, musica e teatro, cinema e fotografia ma anche l’universo dei saperi scientifici e delle conoscenze tecnologiche, dell’economia e delle relazioni professionali nel mondo del lavoro.

Cultura è infatti, una nuova formula chimica, un dinamico processo di produzione meccanico e meccatronico (rileggere “Il sistema periodico” e “La chiave a stella” di Primo Levi, per averne conferma), un brevetto o un nuovo materiale industriale high tech,  l’architettura di una fabbrica sostenibile (la sicurezza sul lavoro ne è pilastro portante), un algoritmo dell’Intelligenza Artificiale che migliora la ricerca per prodotti d’avanguardia o una molecola farmaceutica che innova profondamente il mondo delle life sciences, con ricadute positive sulla salute e la qualità della vita di milioni di persone.

Il punto di riferimento di questa idea di cultura d’impresa può stare in una frase famosa di Gio Ponti, intelligenza tra le più creative e produttive dell’architettura e del design: “In Italia l’arte si è innamorata dell’industria. Ecco perché l’industria è un fatto culturale”.

“Fabbriche aperte”, dunque, come obiettivo di percorsi già sperimentati (da Federchimica, oramai da tempo, ma anche in Piemonte, nel Nord Est e in Puglia, nel Giorno delle Piccole Imprese e nelle tante attività di Museimpresa). Di raccordi, con la Giornata del Made in Italy promossa, a metà aprile, dal ministero dell’Industria. E di organizzazione di nuove iniziative, in coincidenza con l’apertura della Settimana della Cultura d’Impresa, a metà novembre. Spirito di comunità e capitale sociale, appunto.

Imprese aperte al pubblico degli stakeholders e alle scuole, fin dagli istituti primari, agli appassionati del turismo industriale (è sempre più interessante vedere dove e come si producono gli oggetti del miglior Made in Italy) ma anche alle donne e agli uomini che per professione raccontano e documentano, scrittori e registi, fotografi e attori. Per costruire così una nuova e più reale rappresentazione della qualità e della sostenibilità, ambientale e sociale, delle nostre imprese. E contribuire a superare quella cultura anti-industriale e anti-scientifica e tecnologica purtroppo ancora tanto diffusa nel nostro Paese.

È un’operazione ambiziosa di quella “cultura politecnica” di cui abbiamo detto, ben oltre le rappresentazioni autoreferenziali e retoriche del tradizionale storytelling. E una scelta strategica che sostiene e rafforza le capacità competitive del sistema produttivo: storia e memoria, bellezza e qualità, creatività e tecnologia d’avanguardia come componenti essenziali di un “orgoglio industriale” che rilancia il Made in Italy a livello globale. Il nostro soft power, appunto.

 

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