Finanziamo agevolati

Contributi per le imprese

 

«La politica non esiste per “darmi ragione”, ma per ascoltare le “mie ragioni”, in una cornice di dialogo comune». Giuliano Amato e l’incomunicabilità nel tempo presente


Un confronto con la grande politica, con la storia del nostro panorama partitico, e con i veri nodi del nostro sistema istituzionale è quello che ha compiuto il presidente emerito della Consulta Giuliano Amato in due suoi significativi testi come “C’era una volta Cavour. La forza della grande politica” e il suo saggio “Senza i partiti. Costituzione e partecipazione, oggi” all’interno della raccolta “Non solo sulla carta. Quattro lezioni necessarie sulla Costituzione” (con scritti di Andrea Manzella, Enzo Cheli, Augusto Barbera), entrambi editi per il Mulino. Due opere diverse, ma accomunate da una comune vocazione: riscoprire il ruolo cruciale della grande politica e della sua fonte legittimante, la partecipazione. Un compito che il primo testo persegue tramite una introduzione, analisi e un commento a dieci tra i più significativi discorsi del Conte di Cavour tra politica interna e internazionale, mentre il secondo lo fa con un saggio sull’evoluzione, il significato e la decadenza storica del ruolo dei partiti che riflette su come rilanciare il tracciato costituzionale.

Assistenza e consulenza

per acquisto in asta

 

Ne emerge un’indagine, chiara, seria, rigorosa sui veri nodi del nostro sistema e del nostro panorama politico tramite una lente giuridica e intellettuale, storica e istituzionale. Dal ruolo di grandi pionieri e statisti come Cavour e De Gasperi nella nostra storia nazionale alle ragioni del declino della partecipazione pubblica, con alcune proposte per poter rigenerare i fondamenti della nostra vita democratica, Amato entra nel complesso dedalo politico e istituzionale italiano in modo da mostrarne le simmetrie, i vicoli ciechi, le complessità tramite la sua voce di protagonista d’eccezione della nostra storia parlamentare (e non solo). Come conferma la sua lunga carriera che lo ha portato ad essere deputato, ministro del Tesoro, ministro dell’interno, due volte presidente del Consiglio, giudice e poi presidente della Corte Costituzionale oltre che presidente dell’AGCM. Un profilo istituzionale a cui si è accompagnato un forte impegno culturale (da ultimo come presidente del Cortile dei Gentili) e accademico, da sottile giurista e intellettuale, che lo rendono un interlocutore privilegiato per affrontare i principali nodi della politica italiana.

-Presidente Amato come è cambiato il ruolo dei partiti da quando la Costituzione è stata redatta a oggi e come vede lo stato degli odierni partiti, se ce ne sono, e movimenti?

Quello dei partiti è in realtà forse il principale problema che il nostro sistema istituzionale affronta in quanto riguarda la propria capacità di risposta alle sfide e ai temi che provengono dalla società e dal mondo. Ciò perché in realtà i partiti che abbiamo davanti a noi non hanno più le caratteristiche strutturali e di funzionamento che li avevano resi protagonisti essenziali delle democrazie del Novecento. Quando il sistema democratico, assumendo la sua forma moderna, dovette mettersi a disposizione non più di limitate élites come era accaduto con le democrazie parlamentari dell’Ottocento, ma di quei milioni di cittadini che giustamente pretendevano di aver voce nei sistemi di governo. Delle voci, cioè, che i sistemi elettorali, sia pure molto lentamente, portarono al voto. Organizzandosi in funzione di ciò, i partiti acquistarono la loro fonte legittimante (che oggi hanno perso), vale a dire il ruolo di veicolo della partecipazione dei cittadini all’elaborazione delle politiche che nelle istituzioni troveranno sbocchi e forme. Si dice che sono comunque le elezioni a legittimarli, tramite il voto. Ma le elezioni possono legittimare il dopo, non il prima; non, perciò, la selezione dei candidati, che presuppone un ruolo rappresentativo preesistente e quindi conquistato altrimenti. Una legittimazione che, invece, avevano in passato.

-Perché ebbero tale legittimazione?

In quanto vi furono partiti che, diversamente da quelli che avevano vissuto soltanto in Parlamento, presero radici nella società, vi seminarono idee e valori di fondo e convogliarono attorno a essi programmi che gli permisero di mobilitare larghissime parti dell’elettorato. I partiti politici furono, quindi, il differenziale che rese possibile il funzionamento della democrazia nelle società di massa, a differenza di quelli dell’Ottocento con una impostazione elitaria, in quanto vollero rappresentare questi larghi ceti popolari. Pensiamo, solo per rimanere in Italia, al Partito Socialista e al Partito Popolare. Due partiti che non nascono in Parlamento o nei salotti, ma nelle periferie della società, nei quartieri, nei luoghi di lavoro, mettendo insieme i cittadini, facendoli parlare tra di loro. Essi crearono dei contesti nel quale pian piano si formarono delle identità collettive costruite attorno alle loro visioni e alle prospettive di un futuro migliore. Ed ecco che questo orizzonte disciplina e armonizza gli interessi presenti e individuali, li porta tutti a convenire anche su scelte che possono costare un momentaneo sacrificio, ma che sono tesi a costruire o prefigurare un domani migliore. Ciascuno ha il suo sol dell’avvenire, anche chi non lo usa come simbolo. 

Contributi e agevolazioni

per le imprese

 

-La politica che cos’è in questo sistema?

È dialogo tra le persone, è parlarci, è ascoltarli, essere convinti delle loro ragioni, ma convincerli anche dei modi utili, efficaci, possibili per farle valere. I partiti sono una grande rete distesa nella società, attraverso la quale si svolge questo dialogo, si formano le politiche e quando arrivano in Parlamento hanno già un consenso radicato nella popolazione. La Costituzione della Repubblica fotografa questa situazione. E non a caso identifica come uno dei propri pilastri l’Art. 49 che sancisce il diritto di tutti i cittadini “di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”. 

-Come è cambiato questo sistema?

Successivamente, come sempre accade nella storia, le organizzazioni dei partiti da una parte si sclerotizzarono, mentre pian piano la rete che avevano a loro disposizione sì è “imbrigliata” e logorata diventando meno importante. Dall’altra parte anche i modi di comunicare dei leader politici sui cittadini sono cambiati. Costoro non hanno più bisogno di andare a cercare i propri elettori, ma ci parlano direttamente attraverso la televisione. Si tratta di una differenza tutt’altro che marginale: i politici parlano, i cittadini ascoltano, ma non c’è possibilità di dialogo. Con lo sviluppo dei media e dei mezzi di comunicazione, il dialogo in qualche modo lo restituiranno i cosiddetti social, ma saranno dialoghi spezzettati, atomizzati (spesso dei soliloqui). In cui l’Io singolo che si trova da solo davanti al proprio computer o smartphone comunica con gli altri. In questo contesto immersivo tipico dei social, quindi, non si dialoga, non si partecipa, non si sta veramente insieme, non si forma l’opinione comune. Di qua la differenza tra la politica di un tempo e la politica che possiamo permetterci oggi, che non si costruisce con i cittadini, ma ascoltando attraverso i sondaggi e i comunicatori della politica ciò che i cittadini vogliono, ciò che hanno in mente, ciò che odiano. Ne emerge uno scenario politico che si limita tendenzialmente a reagire a queste loro posizioni, valutazioni, umori, (o più spesso malumori). E quindi diventa una politica che non svolge una funzione propulsiva verso il futuro, bensì reagisce nell’immediatezza agli stimoli presenti. Questa è la fonte forse principale della fragilità della nostra democrazia oggi, che tanto avrebbe bisogno di costruire un futuro.

-E perché non si riesce a costruire più un avvenire, specialmente un avvenire comune?

 In quanto non ci sono, in questo quadro, ingegneri capaci di costruire ponti verso di esso. 

-Come si può ricostituire quel rapporto tra eletto ed elettore, cittadinanza e potere e rimanendo anche fedeli allo spirito della carta costituente?

Bisognerebbe essere in grado di ricreare il dialogo. La politica non esiste per “darmi ragione”, ma per ascoltare le “mie ragioni”, per ascoltare e anche condividere parte delle mie risposte, in una cornice di dialogo comune. Il tema è, non avendo più i partiti che lo fanno, cos’altro possiamo costruire per ottenere quel risultato. Non è facile, nessuno ha dato risposte sicure, neanch’io ho dato risposte sicure pur avendoci forse riflettuto più di altri. 

Richiedi prestito online

Procedura celere

 

-Una traccia che è presente nel suo saggio è avvalersi dell’esperienza del terzo settore. Perché questo? 

Poiché il terzo settore, il volontariato che si occupa degli altri è una parte della nostra società che ha mantenuto la prassi, l’abitudine, la cultura dell’occuparsi non solo di sé, ma anche degli altri. E col passare del tempo anche di costruire progetti di interesse comune per tutti oltre che per aiutare i bisognosi. Non a caso la legge che abbiamo sul terzo settore prevede che esso concordi con l’amministrazione pubblica a programmare, a progettare e anche a gestire iniziative di interesse collettivo. Un aspetto che è la vocazione principale e il modo di lavorare del terzo settore: coinvolgere i cittadini interessati. Ecco questa può essere un percorso di rigenerazione. Possiamo, infatti, allargare questa pista facendo reimparare ai politici la frequentazione di questi progetti chiedendo, inoltre, alle componenti del terzo settore un coinvolgimento di parte del proprio personale nel mondo politico. Per portare nella politica questa abitudine e questa prassi. Ci saranno altre strade ma questa è forse quella che oggi vediamo di più. Chi scrive non è affetto dalla “retrotopia” di cui giustamente Zygmunt Bauman diffidava. In quanto al passato non si torna. Resta vero però che quanto è scritto nel’ articolo 49 è il pilone fondante di una vera democrazia. E non si potranno sciogliere i nodi dell’attuale stato delle cose se non si tornerà a quello spirito, pur in una forma aggiornata. In quanto la democrazia non è più tale se non è in condizione di poggiare sulls partecipazione dei cittadini, sul dialogo, sul confronto 

-Lei ha scritto un testo come “C’era una volta Cavour. La forza della grande politica”, le vorrei chiedere che cos’è la grande politica e perché oggi ne vediamo sempre meno se non proprio nulla in questo scenario tanto italiano che internazionale?

La grande politica è quella che costruisce il futuro attraverso percorsi che non esistono e che vengono essi stessi predisposti via via attraverso la capacità dei suoi rappresentanti di acquisire consensi su un disegno pioneristico. Non a caso io utilizzo molto nella mia presentazione di Cavour – uno statista che è un esempio di grande politica – la definizione che dell’arte politica dava un nostro grande storico dell’economia e anche della politica che era Luciano Cafagna. Il quale diceva sostanzialmente che la qualità della politica era di trarre dagli addendi messi a disposizione un risultato superiore alla loro somma. In questo senso la grande politica è quella che aggiunge qualcosa che in partenza non c’è. E per fare ciò è necessario convincere e coinvolgere i cittadini, gli elettori ed in generale la società a seguirti in questo disegno. Perché, in sostanza, la politica è il far camminare insieme una società, non è nello scrivere una legge, metterla in Gazzetta Ufficiale e poi star lì senza che nessuno se ne occupi. La politica è muovere una società verso un risultato di cui essa ha bisogno. Cavour è un grande esempio di questa qualità.

Roma, Maggio 2025. XXVII Martedì di Dissipatio

-Perché?

In quanto, come giustamente disse il Presidente Giorgio Napolitano, Cavour rese possibile il risultato più improbabile in quel momento della storia, ovvero l’unità nazionale. Un risultato improbabile, (data la frammentazione dei vari statarelli italiani, i condizionamenti interni e i condizionamenti delle grandi potenze occupanti e alleate) che fu costruito avendo in mente un’idea di futuro. La politica di oggi, invece, del futuro parla, ma sono parole, non sono progetti. Perché non ha gli strumenti per costruire il ponte in grado di portare verso quel futuro. Finché, quindi, non avremo ricreato una condizione che consenta questo, saremo condannati al presentismo della politica dell’oggi.

-Non pensa che anche per avere una grande politica serva una grande cultura politica, che è quella che per esempio aveva Cavour e che avevano altri statisti a lui successivi, che forse oggi è quel fattore più latitante?

Prestito condominio

per lavori di ristrutturazione

 

Certamente. È evidente che per costruire un futuro bisogna che quel futuro abbia il suo profilo, le sue gambe fondate su aspirazioni, bisogni, necessità che qualcuno abbia saputo cogliere nel presente. Leggendo nel presente non soltanto le lamentele della cronaca, ma anche le ragioni del cambiamento che può rendersi necessario. Non so se questa urgenza arriva alla politica, e ai politici di oggi che hanno il loro tempo tutto impegnato nel gestire la loro sempre più frenetica quotidianità. Ma la cultura sta ancora producendo gli ingredienti di un possibile disegno verso il futuro. Io sono abbastanza convinto che quello che è venuto meno non é il pensiero, ma il canale che collega la cultura alla politica, per più ragioni.

-Quali?

Intanto i vecchi partiti non avevano divisioni tra coloro che pensano e coloro che praticano la politica. Se pensiamo non solo alla nostra classe dirigente, ma anche alle classi dirigenti di altri paesi, come lei diceva giustamente, noi troviamo figure che possono stare da una parte come dall’altra. Pensi a un personaggio come De Gasperi, pensi a un personaggio come Togliatti che era il suo interlocutore principale. In questo momento ho in mente il carteggio tra Antonio Segni, Ministro dell’Agricoltura, e Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio. Sono lettere che addirittura un dilettante di ciò che è l’agricoltura avrebbe difficoltà anche a capire. Tanto era approfondita l’analisi che trovavamo in quegli scambi epistolari. Oggi non è più così, si è creato in realtà un solco nella società, ed i partiti servivano a colmare questo solco.

-Nel suo testo su Cavour lei analizza dieci discorsi, cinque di politica interna e cinque di politica estera, introducendoli con delle analisi che sono tanto di sintesi quanto di approfondimento e in certi casi di attualizzazione. Cosa la ha colpita di questi dieci discorsi?

Nella lettura di questi testi colpisce il modo in cui Cavour alimenta il ventaglio di modelli di riferimento che si deve avere per costruire l’Italia e avviare una modernizzazione. È significativo che quasi sempre sia davanti a lui il modello di ciò che hanno fatto gli inglesi perché lui ha in mente come suo riferimento l’Inghilterra, sia dal punto di vista economico, sia anche dal punto di vista politico. Non dimentichiamo che alle origini della sua visione riformatrice dell’Italia c’era stato tra l’altro un suo viaggio in Inghilterra dove scoprendo le evoluzioni del settore ferroviario e logistico, scrive ad un amico che gli inglesi “hanno abolito le distanze”. In quell’occasione Cavour vede nell’obiettivo della realizzazione di una rete ferroviaria moderna e funzionale un fattore determinante di sviluppo tanto che penserà all’unità d’Italia anche per questo. Perché senza un’Italia politicamente unita, una unità economica funzionante e una rete ferroviaria funzionante non sono pensabili.

-Poi?

Finanziamenti personali e aziendali

Prestiti immediati

 

Un altro aspetto è il gioco che continuamente fa nei suoi interventi sulla necessità di riformare, e rinnovare. Ciò che è un fattore non secondario perché lui ha bisogno di far accettare se non desiderare le riforme da una parte anche conservatrice del suo Parlamento. Non la parte più estrema, ma la parte più moderata. Alla quale non fa che dire che se le riforme non si fanno tempestivamente, si rischia di favorire i rivoluzionari. I quali quando prendono il potere fanno disastri, portando cambiamenti caotici e distruttivi. Cavour, quindi, sottolinea che è necessario attuare per tempo le riforme per filtrare e orientale il cambiamento. Poi come dicevo prima parlando delle lettere di Segni con De Gasperi, sorprende anche in questo caso la competenza tecnica assolutamente fuori dall’ordinario forse anche per la stessa politica di allora. Quando si legge un discorso come quello nel quale propone l’abolizione dei dazi per non favorire le imprese inefficienti e per mettere alla frusta il sistema produttivo, dimostra una conoscenza analitica delle produzioni piemontesi allora esistenti, dei loro pregi e dei loro difetti, che per bacco nel Parlamento di oggi credo nessuno avrebbe.

-Secondo lei, come molti hanno sottolineato, è davvero così attuale il discorso di Cavour sui dazi per quanto riguarda le crisi commerciali tra le due sponde dell’Atlantico?

Se volessimo fare una provocazione, si potrebbe proporre di tradurlo in inglese e farlo leggere al presidente Trump. Ma sarebbe una risposta troppo banale, troppo semplice, troppo superficiale. Ciò perché in realtà Trump, nonostante abbia una visione certamente caotica, non vede i dazi come una politica di difesa dell’economia americana a lungo termine secondo una visione tradizionalmente protezionista. Ma, li vede in realtà come un’arma di scambio. Tutti dicono, amici e nemici, che Trump in realtà è un negoziatore e che quindi lui aspira a dei risultati politici e utilizza lo strumento dei dazi sul tavolo per spingere il “daziato”, di turno nella condizione di delineare o iniziare una trattativa. E nonostante la sua giustificazione delle ragioni di questi cosiddetti “dazi reciproci” mi sembri molto confusa e poco convincente (se non in molti casi falsa), ciò mi induce però a considerare la sua visione profondamente distante da quella, solo per fare un esempio, di Francesco Crispi.

-Nei discorsi di politica internazionale emerge un ritratto di un politico che sa essere realista ma anche fedele a un certo bagaglio di principi, ora le volevo chiedere come si può cercare di coniugare l’interesse nazionale ai valori occidentali ed europei evitando di cadere nel binomio velleitarismo e disfattismo? 

In realtà se si sa quello che si vuole e dove si vuole andare è molto facile. Il velleitarismo è, infatti, il modo di fare di chi non avendo i mezzi proclama dei fini ambiziosi per l’avvenire, per superare l’impotenza in cui versa. Ciò spesso però non accade ed anzi porta conseguenze tragiche. La nostra storia lo ha confermato più volte… Allo stesso tempo è altrettanto dannoso un approccio rinunciatario, passivo e isolazionista. Per poter incidere nello scenario internazionale, infatti, serve semplicemente il realismo, serve saper misurare quello che si fa con i mezzi di cui si dispone. Utilizzando le alleanze con gli altri paesi e un’idea di dialogo costruttivo per affrontare le sfide comuni senza scadere anche in alcune sopravvalutazioni dei propri interessi nazionali. La lezione di Cavour è, del resto, essenzialmente questa.



Source link

Investi nel futuro

scopri le aste immobiliari

 

***** l’articolo pubblicato è ritenuto affidabile e di qualità*****

Visita il sito e gli articoli pubblicati cliccando sul seguente link

Source link

Investi nel futuro

scopri le aste immobiliari