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L’India va allo sciopero generale il 9 luglio


Lo scorso 20 maggio si è svolto in India uno sciopero nazionale contro le riforme del governo Modi e per il rafforzamento delle misure di protezione sociale in tema di lavoro, promosso dalla piattaforma sindacale Central Trade Union (CTU) – che unisce in un unico cartello diverse sigle (BMS, INTUC, AITUC, CITU, AIUTUC tra tutte) – che ha rilanciato come prossima data della mobilitazione il 9 luglio.

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Lo sciopero (organizzato ogni anno dall’emanazione delle riforme in questione ma quest’anno apparentemente più partecipato) è stato l’occasione per migliaia di lavoratrici e lavoratori di scendere in piazza nelle principali città e nei maggiori centri industriali del Paese per chiedere il ritiro dei quattro codici del lavoro emanati tra il 2019 e il 2020 dal governo nazionalista di estrema destra guidato dal Primo Ministro Modi (Code on Wages, Industrial Relations Code, Occupational Safety, Health and Working Conditions Code e Social Security Code), giustamente definiti dai sindacati “pro-corporate”, cioè che favoriscono le élite imprenditoriali vicine al BJP a scapito dei lavoratori.

Sinteticamente queste riforme, sbandierate da Modi come atto di modernizzazione necessaria per attrarre investimenti e creare posti di lavoro, prevedono la flessibilizzazione dei licenziamenti, l’aumento dell’orario lavorativo, la riduzione delle tutele sulla sicurezza e la limitazione del diritto di sciopero.

Per fare solo alcuni esempi più specifici: l’Industrial Relations Code alza da cento a trecento il numero di dipendenti oltre il quale un’azienda deve chiedere permessi governativi per licenziamenti o chiusure, aumentando la precarietà e facilitando i licenziamenti, con conseguenze terribili in termini di povertà in un Paese, com’è l’India, con un debole sistema di protezione sociale.

L’Occupational Safety, Health and Working Conditions Code, invece, alza a dodici le ore lavorative giornaliere (quattro di straordinario), che in un Paese con un tasso di sindacalizzazione minimo (solo il 6% di chi lavora è oggi sindacalizzato) e con solo un ispettore del lavoro ogni 10.000 lavoratori aumenta notevolmente il lavoro non retribuito.

L’Industrial Relations Code a sua volta introduce requisiti più stringenti per organizzare scioperi (come preavvisi di 14 giorni e maggioranze del 75% dei lavoratori per proclamarli), limitando il numero di sindacati riconosciuti per azienda e centralizzando il potere nelle mani di organizzazioni vicine alle imprese (gli effetti disastrosi di questo codice sono stati evidenti nel 2022, quando un ampio movimento di lavoratori portuali fu represso brutalmente proprio perché non aderiva ai requisiti di legalità dell’Industrial Relations Code).

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Il Code on Wages, che a parole proclama l’introduzione di un salario minimo nazionale, permette ai singoli Stati di fissare soglie più basse, creando disparità regionali e innescando una corsa al ribasso dei salari per attrarre più investimenti delle aziende (si consideri che il salario minimo medio in India è di circa 178 rupie/giorno (2,15€), insufficiente per sopravvivere nelle città metropolitane).

Infine, il Social Security Code esclude i lavoratori informali (circa il 93% della forza lavoro) da schemi universali, legando l’accesso a contributi individuali o ad adesioni volontarie delle aziende e lasciando senza copertura milioni di braccianti agricoli, lavoratori domestici e rider, categorie già molto esposte (oltre al fatto che l’imperante informatizzazione delle domande di welfare di fatto esclude milioni di lavoratrici e lavoratori residenti in aree rurali dall’ottenimento dei benefici della protezione sociale).

Tutto ciò si inserisce in un’agenda economica fortemente liberista e centralizzante (i quattro codici trasferiscono competenze dagli stati al governo centrale, riducendo la flessibilità degli stati nel legiferare su temi lavorativi) promossa dal governo a guida BJP dal 2014 in poi, la quale in nome della “modernizzazione” e dello “sviluppo” ha spinto per riforme strutturali che attraggano investimenti stranieri e stimolino la crescita economica riducendo la già debole protezione sociale sul lavoro (si pensi solo che l’India è passata dalla 142ª posizione nel 2014 alla 63ª nel 2020 nella classifica sull’”Ease of Doing Business”, cioè la facilità di fare business, della Banca Mondiale).

Nonostante gli altisonanti proclami di creazione di posti di lavoro – in India, dove la domanda di lavoro supera di gran lunga l’offerta (l’età media è 28 anni), la difficoltà a trovare lavoro è un problema sociale di fondamentale importanza – i dati mostrano che gran parte dei nuovi incarichi sono precari o a bassa produttività e la realtà è quella di un Paese sempre più diseguale.

Tuttavia, le massicce proteste contro le leggi agricole del 2020 (poi ritirate) già hanno dimostrato la capacità di mobilitazione della società civile e questo è anche l’auspicio per il prossimo 9 luglio. Perché solo l’organizzazione di un fronte unito di massa e la lotta pagano.

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