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Progetto Quid è la prova che non servono unicorni da un miliardo per cambiare il mondo (e salvare le donne)


È un laboratorio vivace e giovane quello di “Progetto Quid”, a Verona, dove le eccedenze tessili evitano la discarica dando vita ad una rivoluzione silenziosa quanto preziosa: quella della dignità ritrovata. Fondata da Anna Fiscale a soli 25 anni, l’impresa sociale mette al centro le persone fragili, accogliendo oggi 160 collaboratori – per lo più donne con storie di difficoltà alle spalle – e offrendo loro non solo un impiego, ma percorsi di formazione su misura, sostegno psicologico e un ambiente che valorizza ogni talento. Tra tagli, panneggi e colori, Quid non cuce solo vestiti, costruisce fiducia e crea reti di solidarietà, dimostrando che l’upcycling può trasformarsi nella stoffa sulla quale tessere un futuro più inclusivo.

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Signora Fiscale, cosa l’ha spinta, giovanissima, a scegliere di fondare Progetto Quid, mettendo al centro le persone più fragili? Ci sono stati episodi personale o un incontro decisivo che hanno orientato il suo percorso?

“All’inizio c’era solo un’idea: un’intuizione e una squadra di giovani, che insieme a me ha immaginato ciò che sarebbe diventata l’impresa sociale Quid. Da quell’idea, verso la fine del 2012, nasce un’associazione che valorizza capi invenduti, modificandoli e dando vita a nuove collezioni in collaborazione con un’altra cooperativa. In quegli anni, osservando da vicino le grandi eccedenze tessili provenienti dai distretti del lusso e della moda italiani e studiando il territorio veronese, ho percepito un’opportunità concreta: creare un’impresa che utilizzasse tessuti di eccedenza e, insieme, offrisse percorsi lavorativi a donne con un passato di fragilità. L’idea si è trasformata poi in un progetto che quest’anno compie 12 anni: e così nasce, nell’aprile 2013, la Cooperativa Sociale Quid con l’obiettivo di creare valore sul territorio attraverso strade nuove ed innovative, per dare opportunità lavorative a persone con trascorsi di fragilità e rivoluzionare il mondo della moda un vestito alla volta. La spinta non è nata da un singolo episodio, ma da un’urgenza: dimostrare che economia e impatto sociale non sono mondi separati, ma possono – e devono – camminare insieme. Quid è nata con l’ambizione di costruire un mercato del lavoro più equo, che riconosca valore a ogni singolo talento, anche e soprattutto a quello che ha incontrato ostacoli”.

Il lavoro, per chi ha vissuto situazioni di disagio o di esclusione, può rappresentare molto più di uno stipendio. Nella sua esperienza quotidiana, cosa significa per una persona “rientrare” nel mondo attraverso il lavoro?

“Il lavoro è, per molte delle persone che incontriamo, una porta d’accesso alla dignità, alla fiducia in sé stessi, alla possibilità concreta di costruire un futuro. Nella nostra esperienza quotidiana, il lavoro rappresenta una leva di emancipazione potentissima: significa apprendere nuove competenze, tornare a sentirsi utili, vivere un tempo di qualità, riconoscersi in un progetto collettivo, socializzare. L’impresa, se costruita su valori inclusivi, può trasformarsi in un motore di cambiamento sociale. In Quid, il lavoro non è solo un impiego, è strumento di rigenerazione e cura: un’opportunità per conoscersi, crescere, connettersi e trasformare i propri limiti in punti di partenza per far sbocciare i talenti di ciascuno”.

Quasi tutte le persone che lavorano con Quid portano con sé una storia difficile: disabilità, traumi, percorsi interrotti. Come riuscite a trasformare queste fragilità in valore all’interno del laboratorio?

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“Trasformare fragilità in risorsa è il cuore pulsante del nostro progetto. Offriamo opportunità concrete di formazione e impiego a persone a rischio di esclusione e discriminazione, in un ambiente dove la persona viene prima del ruolo. Grazie al nostro modello integrato di formazione e supporto on the job costruiamo percorsi di inserimento lavorativo e di progressione all’interno dei nostri laboratori. Creiamo percorsi personalizzati accompagnati dal supporto psicologico e pedagogico di professioniste specializzate, in cui ciascuno può contribuire attivamente alla propria crescita e pensati a sostegno dei lavoratori più isolati e più fragili con l’obiettivo di catalizzare l’impatto dell’impiego inclusivo. Il tempo trascorso in Quid non è solo produttivo: è formativo e trasformativo. Attualmente contiamo circa 160 collaboratori, provenienti da 23 nazionalità diverse: il 60% ha attraversato esperienze di fragilità”.

In un sistema produttivo spesso orientato alla velocità e alla performance, come si costruisce uno spazio inclusivo che non solo accoglie, ma ascolta e valorizza?

“Siamo un’impresa di moda che crede nella bellezza, ma anche nella responsabilità. Questo approccio ci permette di rallentare dove serve, per lasciare spazio alla formazione e all’accompagnamento, senza mai rinunciare alla qualità. Il nostro modello fa leva su tre leve virtuose – formazione on the job, supporto pedagogico e psicologico – grazie a cui co-disegniamo con il coinvolgimento delle nostre trainer specializzate percorsi di accompagnamento e di inclusione lavorativa a favore delle risorse vulnerabili”.

Il suo team è composto per l’82% da donne, molte delle quali con esperienze di violenza, dipendenze o reclusione. In un contesto come il vostro riescono creare relazioni e reti di fiducia tra colleghe?

“Assolutamente sì. Quid è nato all’inizio soprattutto a sostegno del talento femminile, più fragile. L’82% del nostro team è femminile, e molte di loro hanno vissuto esperienze difficili: violenza, sfruttamento, dipendenze, detenzione. Nei nostri laboratori – compreso quello attivo nella Casa Circondariale di Montorio Veronese, dove oggi lavorano 10 donne – costruiamo spazi protetti, dove il lavoro diventa strumento di emancipazione. Qui si impara, si cresce, ma soprattutto si crea un tessuto di relazioni basato sulla fiducia, sul rispetto e sul sostegno reciproco. Il lavoro non è solo fonte di reddito, ma di relazioni che curano”.

Le va di raccontarci un episodio, un volto o una storia che rappresenta per lei il senso di Progetto Quid? Un momento che le ha fatto dire “ne è valsa la pena”?

“È difficile sceglierne solo uno, perché ogni giorno ci sono piccoli e grandi momenti che ci ricordano il valore di ciò che facciamo. Ma penso a quando una nostra dipendente, dopo anni di silenzio e di vergogna, ha trovato il coraggio di raccontare la sua storia durante un incontro pubblico. Ha detto: “Quid mi ha restituito la voce”. In quel momento ho capito che il nostro impatto va ben oltre il prodotto. Quando una persona torna a sentirsi visibile, ascoltata, riconosciuta, allora sì, ne è davvero valsa la pena”.

Quid guarda al futuro con l’idea di creare un distretto ad alto impatto sociale, anche al di fuori del settore moda. Come immagina questa evoluzione e quali altri mondi vorrebbe “contagiare” con la sua esperienza?

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“Il nostro sguardo è rivolto al 2030 con un obiettivo chiaro: creare un distretto produttivo ad alto impatto sociale, capace di andare oltre il settore moda. Vogliamo contaminare altri ambiti produttivi con il nostro modello di inclusione e rigenerazione. Il primo passo è stato l’apertura del nuovo laboratorio a Padova, all’inizio del 2025, che entro un anno impiegherà 15 persone con fragilità. Ma l’orizzonte è più ampio: immaginiamo una rete diffusa di collaborazioni con imprese illuminate, non solo della moda – con cui già collaboriamo, da Dolce&Gabbana a Iikea, da L’Oréal a Vivienne Westwood – ma anche di altri settori. Vogliamo essere un punto di riferimento nell’upcycling e nella produzione sostenibile, sviluppando competenze in linea con le nuove normative europee sull’eco-design perchè crediamo che ogni filiera possa diventare ibrida, etica e rigenerativa”.

Il 15 maggio avete accolto nel vostro laboratorio imprenditori e istituzioni per “Boarding for the Future”. Che tipo di confronto ne è scaturito?

“Boarding for the Future – Il futuro tra persone e tessuti”, è stato un momento fondamentale per promuovere il dialogo tra imprese, istituzioni e realtà del terzo settore. L’auspicio era che questo confronto generasse visioni condivise e azioni concrete per affrontare le sfide ambientali e sociali che ci attendono. Abbiamo parlato di economia circolare, inclusione lavorativa, formazione, competenze e normative europee. Ma soprattutto, abbiamo ribadito un messaggio forte: il futuro si costruisce nell’incontro tra profit e non profit, unendo le forze per amplificare l’impatto positivo. Solo così potremo generare valore condiviso, costruire filiere etiche e promuovere un nuovo modo di fare impresa, capace di mettere al centro le persone”.



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