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Quali sono le condizioni necessarie per un indebolimento duraturo del dollaro? « LMF Lamiafinanza


A più di un mese di distanza dal “Liberation Day”, il dollaro mostra segni di stabilizzazione, pur continuando a perdere terreno rispetto alla maggior parte delle valute dei mercati sviluppati ed emergenti. Anche se la narrativa attuale sull’andamento del dollaro può apparire poco chiara, è possibile analizzare alcuni fattori chiave per comprendere se ci troviamo davvero di fronte a una fase di debolezza prolungata.

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I cicli del dollaro sono stati generalmente molto lenti (l’ultimo è durato 10-15 anni); a nostro avviso, per assistere a una fase di indebolimento strutturale e duraturo della valuta statunitense, sarebbe necessario un marcato rallentamento della crescita negli Stati Uniti oppure un significativo recupero della crescita tendenziale nel resto del mondo.

Un potenziale fattore di rischio per la crescita statunitense potrebbe derivare dall’incertezza legata alle politiche economiche. Non sono tanto i dazi, di per sé, a indebolire la valuta del Paese che li impone, quanto la loro imprevedibilità, che rende le imprese restie a prendere decisioni d’investimento a lungo termine. Alcuni segnali di rallentamento dello slancio di crescita statunitense sono già visibili, sebbene i rischi di una recessione siano diminuiti dopo le negoziazioni con la Cina. Il divario di crescita tra Stati Uniti ed Europa è in fase di riduzione nel 2025. Tuttavia, per determinare una vera inversione del ciclo rialzista del dollaro, sarebbe necessario un cambiamento più netto nel trend di crescita relativa.

In linea generale i tassi europei si sono attestati su livelli ridotti a causa di una stagnazione secolare, ma il recente annuncio dello stimolo in Germania, unitamente al piano dell’UE di incrementare la spesa per la difesa, dovrebbe gettare le basi per una migliore integrazione e una crescita più rapida nei prossimi anni. Detto questo, non è chiaro se la spesa per la difesa in Germania innescherà una crescita strutturale più ampia in Europa – e in ogni caso, potrebbero volerci degli anni.

L’impatto della propensione al rischio/momentum

Anche se la propensione al rischio degli investitori e il momentum in genere influenzano i movimenti delle valute nel breve periodo, la loro rilevanza è aumentata con la liberalizzazione globale dei conti di capitale, che ha portato a un’espansione dei flussi di capitale rispetto ai flussi commerciali. Negli ultimi dieci anni la domanda globale di azioni statunitensi, soprattutto nel settore tecnologico, ha sostenuto la forza del dollaro. Una quota significativa di capitali proveniva da Europa e Giappone, regioni caratterizzate da tassi di interesse ridotti, da una crescita economica lenta e da politiche sfavorevoli per gli investitori.

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I redimenti robusti degli asset statunitensi hanno inoltre attirato gli investitori passivi, ad esempio i fondi sovrani, e ridotto i deflussi di capitali dagli USA verso i mercati emergenti. Nelle fasi di maggiore avversione al rischio, gli investitori hanno inoltre cercato rifugio nei Treasury statunitensi (UST). All’inizio del secondo mandato Trump, si ipotizzava che misure come i dazi e i tagli fiscali potessero sostenere il dollaro, ma l’avvio della guerra commerciale, contestualmente al repricing dei titoli tech, ha invece indebolito fortemente la valuta.

Dall’annuncio della riduzione dei dazi USA-Cina, l’Indice S&P 500 ha recuperato quasi interamente le perdite archiviate dal Liberation Day, ma il dollaro rimane relativamente debole.

Sta probabilmente prendendo forma una progressiva chiusura dei “carry trade in stile ME”: gli eventi politici inducono gli investitori con posizioni in leva su asset statunitensi non coperti dal rischio di cambio (FX) a riconsiderare le loro prospettive di rendimento orientandosi verso portafogli più diversificati. Partendo da un’ampia esposizione agli asset in dollari e da valutazioni elevate, questo processo potrebbe protrarsi nel tempo.

Il dollaro sta per perdere il suo status dominante? 

Il dollaro USA ricopre tre ruoli fondamentali nel sistema finanziario internazionale:

1) È la valuta principale utilizzata per facilitare il commercio globale e i flussi di capitale. Oltre il 50% degli scambi globali e delle transazioni internazionali è fatturato in dollari, anche se gli USA rappresentano poco più del 13% delle importazioni globali.

2) È la valuta predominante detenuta nelle riserve ufficiali, sebbene la sua quota sia attualmente in calo. Nel 2024, rappresentava il 58% delle riserve globali in valuta estera, rispetto al 65% di un decennio prima.

3) È la valuta favorita dal settore privato come deposito di valore, soprattutto durante gli shock economici e i periodi di avversione al rischio.

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Oggi, per mettere in discussione questa leadership, sarebbe necessario un cambiamento radicale nel panorama internazionale. Emergono tuttavia alcune domande chiave: gli Stati Uniti desiderano ancora sostenere questo ruolo? Il mondo ha ancora fiducia nella loro capacità di farlo? Ed esiste oggi una vera alternativa al dollaro?

Gli USA desiderano ancora questo ruolo?

Gli USA hanno ragioni valide per voler mantenere il loro ruolo e Trump è stato chiaro nella sua intenzione di preservare il dollaro come valuta di riserva mondiale. Grazie al “privilegio esorbitante” del dollaro gli USA possono sostenere livelli di spesa superiori alle proprie entrate, accedendo al contempo a costi di finanziamento relativamente contenuti. Inoltre, non è chiaro se la solidità attuale del dollaro dipenda davvero dal suo status di valuta di riserva. Nell’ultimo decennio questo status si è leggermente incrinato ma la valuta ha continuato ad apprezzarsi.

Le politiche sui dazi di Trump, le critiche alla solidità del dollaro dall’interno dell’amministrazione, le preoccupazioni per l’indipendenza della Federal Reserve, l’imprevedibilità delle politiche estere degli USA e l’uso del dollaro come strumento geopolitico hanno ostacolato il ruolo egemonico del dollaro. Un aumento nel premio a termine sui Treasury (che potrebbe indicare un cambiamento strutturale nella domanda) o un disordinato deprezzamento del dollaro sarebbero chiari indicatori di uno stabile processo di disinvestimento in atto, che andrebbe ben oltre un semplice “intoppo”.

Esiste un’alternativa valida al dollaro?

Anche se la quota del dollaro negli asset di riserva globali è scesa negli ultimi due decenni, non è stata compensata da un aumento delle quote delle altre valute comprese nelle “big four”: euro, yen e sterlina. Abbiamo invece assistito all’ascesa di valute non tradizionali e in molti casi più redditizie. Una valuta di riserva non tradizionale che ha aumentato la sua quota di mercato è il renminbi cinese, responsabile per un quarto del calo della quota del dollaro. Pur essendo sostenuto dalla seconda maggiore economia mondiale e offrendo accesso ad ampi mercati finanziari e valutari, il rigido controllo sui capitali del Paese limita il ruolo dello yuan nella finanza globale. Anche l’euro viene spesso considerato una potenziale alternativa al dollaro, ma mancano asset denominati in euro di qualità elevata che gli investitori internazionali e le banche centrali possano utilizzare quale deposito di valore, e non esiste un asset “sicuro” garantito dai governi dell’Eurozona.

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Il dollaro è sopravvalutato da quasi un decennio, stando ai modelli basati sui fondamentali, ma è troppo presto per concludere che ci troviamo in una prolungata fase ribassista. Per confermarlo, dovremmo vedere una forte flessione della crescita degli USA (o una recessione) e/o una significativa accelerazione della crescita nel resto del mondo. Al contempo anche se numerosi elementi costitutivi che hanno contribuito allo status del dollaro come valuta di riserva nel tempo sono venuti a mancare, rimangono solidi a livello di fondamentali, sia in termini assoluti che rispetto alle possibili alternative.

In conclusione, anche se è possibile che il dollaro si indebolisca ulteriormente rispetto ai livelli attuali, è improbabile che ci troviamo a un vero e proprio punto di svolta del ciclo rialzista.

 

 



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