In Italia, le piccole e medie imprese (Pmi) rappresentano non solo un elemento strutturale dell’economia nazionale, ma anche un motore fondamentale per la coesione sociale e il radicamento territoriale. Secondo i dati Istat, oltre il novantanove per cento delle imprese italiane rientra in questa categoria, contribuendo a circa il sessantadue per cento dell’occupazione privata non agricola e a oltre il sessanta per cento del valore aggiunto complessivo.
Consideriamo, in particolare, le micro (da zero a nove addetti e fatturato non superiore a due milioni di euro) e le piccole aziende (da dieci a quarantanove addetti e fatturato non superiore a dieci milioni). Le prime rappresentano ben il 78,9 per cento delle Pmi, le seconde il 25,7 per cento (dati 2021).
Da noi, la dimensione media di impresa è pari a quattro addetti contro la media europea di 5,5, mentre in Germania è di dodici lavoratori (fonte Unioncamere). La quota di occupati nelle micro e piccole aziende italiane sotto i venti addetti è il doppio della Germania e della media europea.
Il modello italiano delle Pmi è unico al mondo e difficilmente rappresentabile attraverso le sole variabili economiche: queste imprese costituiscono un presidio di valori quali la responsabilità sociale, il legame con il contesto locale e il territorio.
Giulio Sapelli, in particolare, noto economista che per anni ha insegnato Storia dell’Economia ed Economia Politica in Italia e all’estero, nel suo fondamentale testo “Una teoria italiana dell’impresa” (2007), spiegava come le Pmi abbiano saputo costruire un modello di impresa fondato sul capitale sociale e sulla prossimità culturale, in grado di resistere alle crisi e di creare innovazione attraverso le reti. Un modello atomizzato, del quale si parla assai spesso nei convegni, ai quali, anch’io, ho più volte partecipato, ma di cui, a mio avviso, assai pochi hanno una conoscenza diretta.
Tanto è vero che i problemi sono rimasti gli stessi da decenni: basti pensare a quanto afferma il Censimento permanente delle Imprese Istat di cui sopra: «È in tale contesto che si consolida nel 2022 l’autofinanziamento come strumento di finanziamento interno più diffuso tra le imprese con almeno tre addetti: vi ricorrono quattro imprese su cinque, in decisa crescita rispetto al passato quando nel 2011 vi facevano ricorso appena due imprese su tre». Un esercito silente, quasi invisibile, di tantissimi signor Nessuno, uomini e donne che non sono così facilmente rappresentabili solo da statistiche o da sole metriche economiche.
Relazioni e reti sociali, connessioni territoriali, responsabilità sociale, contesti familiari, aspetti socioculturali sono alla base di un miracolo che, nel suo insieme, ha permesso a questo Paese, sino a oggi, di prosperare e, negli ultimi anni, di resistere a tante sfide, pandemia compresa. «Miracolo» si dice, e non a vanvera, considerato – come ha segnalato il “Rapporto sulle Imprese 2025” Istat – che la crescita del Pil in termini reali in Italia del 2024 rispetto al 2000 è stata solo del 9,3 per cento contro il 27,7 per cento della Germania o il 45,8 per cento della Spagna.
Politicamente poco interessante, perché un mondo che non ha costruito o non si è particolarmente riconosciuto in organizzazioni datoriali (le parti sociali), quindi rimasto isolato e senza voce. Il continuo isolamento delle microaziende – e le parecchie delusioni – le hanno rese estremamente diffidenti verso i cosiddetti terzi, a cominciare dallo Stato (locale e nazionale) e dalle Istituzioni varie create a favore dello sviluppo di impresa, in particolare Pmi.
Sotto questo profilo, interessante l’indagine Ril (Rilevazione Longitudinale su Imprese e Lavoro) del 2015, datata ma assai completa, realizzata dall’Istituto Nazionale per l’Analisi delle Politiche Pubbliche (Inapp): tra le tante cose, metteva in luce come nel 2005 circa il sessantaquattro per cento delle imprese fosse affiliato a un’organizzazione datoriale, percentuale scesa al quarantaquattro per cento nel 2015.
Il più recente Rapporto Italia 2025 di Eurispes sul grado di fiducia degli italiani verso varie istituzioni pubbliche e private conferma quanto sopra: se i Vigili del Fuoco conquistano il più alto grado di fiducia con un 86,2 per cento (in crescita rispetto al 2024), le Associazioni imprenditoriali segnano un 42,5 per cento, in calo rispetto all’anno precedente. Fanalino di coda i partiti politici, con una percentuale relativa al grado di fiducia del 21,1 per cento, in grande calo rispetto alla precedente rilevazione.
Questo universo di microaziende ha sviluppato una resilienza che, però, lo ha anche allontanato dal cercare innovazione e nuove linee di sviluppo, per non correre rischi economici-finanziari che avrebbe poi dovuto sopportare con poche risorse. Lo rileva, tra gli altri, per citare un caso, il recentissimo rapporto sulla “Trasformazione digitale nelle Pmi: sfide di oggi, opportunità di domani” presentato dall’Osservatorio Innovazione Digitale del Politecnico di Milano-School of Management, in cui si afferma che ben il quarantasei per cento delle Pmi ha posto una scarsa o nulla attenzione agli investimenti in tecnologie digitali e come la metà delle Pmi che, invece, ha investito nella digitalizzazione abbia sostenuto le relative spese esclusivamente con risorse proprie. Altro che investire: la parola d’ordine è stata, ed è tuttora, resistere, resistere e ancora resistere – e chi ha, in qualche modo, investito lo ha fatto con le proprie disponibilità finanziarie.
Per avere, quindi, un quadro più aderente al cuore di questo fenomeno, è indispensabile, a mio avviso, procedere a delle indagini anche sotto il profilo sociale e sul campo, ascoltando le tante voci polifoniche che, con la dovuta sintesi ma senza perdere il quadro di insieme, potrebbero suggerirci fattivamente le priorità sulle quali porre l’accento.
Inoltre, si stanno affacciando, e nei prossimi anni cresceranno in maniera esponenziale, le problematiche legate al passaggio generazionale: il 30,2 per cento delle aziende sino a tre addetti vi sarà coinvolto a breve termine, secondo Istat.
Le questioni che limitano lo sviluppo sono più o meno le stesse da decenni: burocrazia, accesso al credito, scarsità infrastrutturali. Lo stesso rapporto del Politecnico evidenzia come «il quarantasette per cento delle Pmi italiane abbia difficoltà all’accesso a una connettività digitale adeguata o per totale assenza di infrastrutture o per velocità di connessione non sufficiente a supportare le esigenze operative dell’impresa».
Al netto dei tanti studi e tanti convegni, questo universo non sembra, al momento, essere una priorità della politica legata allo sviluppo economico generale del nostro Paese (come peraltro successo negli anni precedenti, considerato che le problematiche sono da tanto tempo rimaste le stesse).
Ma sono il tessuto connettivo, anche sociale, non solo economico, del nostro Paese: chi saprà dare dignità e identità collettiva a questi signor Nessuno, e sarà capace di individuare alcune risposte per sostenerne lo sviluppo economico – poche per priorità ma concrete – avrà vinto sotto diversi punti di vista, a beneficio di tutta l’Italia.
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