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Opinioni | Green deal, il dilemma sulla Cina


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Di transizione energetica si parla sempre meno. L’attenzione della politica italiana e europea si è diretta altrove. La buona notizia è che gli ultimi dati mostrano che l’Unione europea raggiungerà con ogni probabilità l’obbiettivo di riduzione del 55% delle emissioni di CO2 entro il 2030. La cattiva, è che Bruxelles, in risposta alle pressioni degli Stati membri dell’Unione, sta considerando opzioni per diluire le politiche verdi.

L’argomento in sostegno di queste pressioni è che i grandi inquinatori sono i Paesi emergenti e, in particolare, la Cina. Ne consegue, si sostiene, che darsi regole troppo strette non risolve il problema del cambiamento climatico e allo stesso tempo indebolisce la competitività dell’industria europea. Tanto più che gli Stati Uniti stanno smantellando tutte le politiche verdi e conducendo una battaglia culturale all’insegna del «drill, baby drill».




















































Il problema con questa logica è che, per l’Europa, che dipende dalle importazioni di gas e petrolio, la strategia verde è fondamentale per raggiungere l’indipendenza energetica. Per questo, la pressione su Bruxelles non dovrebbe essere volta ad ottenere un rilassamento di obbiettivi e regole, ma dovrebbe invece esercitare pressione affinché si sviluppino strumenti collettivi per promuovere investimenti in rinnovabili, che sostengano la innovazione e la produzione e commercializzazione a scala delle tecnologie verdi.

Se nel breve e medio periodo la transizione da tecnologie tradizionali alle rinnovabili comporterà costi (vedi il rapporto per la Bank of International Settlements (Bis) scritto da me e i miei coautori Fornaro e Guerrieri), nel lungo periodo il cambiamento del nostro sistema energetico è condizione della resilienza del nostro sistema economico e della nostra autonomia strategica.

L’Europa si trova però intrappolata in uno scomodo dilemma. Gli Stati Uniti sono il suo storico alleato strategico, ma esercitano il loro potere economico attraverso la catena del valore dei combustibili fossili. D’altra parte, la Cina, non un alleato solido, è strategica per raggiungere gli obbiettivi del Green Deal. La Cina oggi domina tutta la filiera delle rinnovabili. È vero, il Paese è ancora il maggiore emettitore di CO2 al mondo e il carbone rappresenta ad oggi oltre il 50% del suo mix energetico, ma i progressi nella decarbonizzazione sono stati impressionanti. La quota di energie rinnovabili è aumentata rapidamente e le emissioni di CO2 sono diminuite di circa del 48% dal 2005 al 2020.

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Soprattutto, la Cina domina ogni anello della catena di approvvigionamento di veicoli elettrici, pannelli solari e batterie ed è leader mondiale nella lavorazione delle materie prime necessarie per le tecnologie dell’energia pulita. Secondo l’Agenzia Internazionale per l’Energia, la Cina rappresenta oltre l’85% della fornitura globale di materie rare, circa il 60% del litio e circa il 90% della grafite anodica mondiale. Senza la Cina, non avremmo energia solare a prezzi accessibili o veicoli elettrici competitivi. In altre parole, senza la Cina la transizione è impossibile.

Il suo predominio nella filiera delle energie rinnovabili è il risultato di una scelta strategica lungimirante che ha portato allo sviluppo di un ecosistema, che comprende tecnologia, capacità produttiva su larga scala e accesso a materie prime critiche. La motivazione ne è stata la consapevolezza della sua principale vulnerabilità: la dipendenza energetica. Attraverso politiche industriali aggressive, sussidi statali per le tecnologie in fase iniziale, ma anche una forte concorrenza tra le imprese in fase avanzata, insieme a enormi economie di scala, la Cina ha abbassato i prezzi e costruito un vasto ecosistema di tecnologie pulite che il resto del mondo fatica a replicare.

Il disaccoppiamento dalla Cina renderebbe il Green Deal europeo irrealizzabile. Gli analisti di Bloomberg avvertono che i pannelli solari e le componenti per veicoli elettrici potrebbero aumentare i costi dal 30 al 50% se i Paesi occidentali la escludessero dalle loro filiere. L’impatto sarebbe ingente in Europa, ma soprattutto nei Paesi in via di sviluppo, che già faticano a finanziare infrastrutture verdi e dalla cui capacità di elettrificazione dipende la sorte del cambiamento climatico globale.

Per questa ragione, se l’Europa continuerà a considerare la transizione verde un obbiettivo strategico e mezzo per esercitare la sua leadership globale dovrà costruire un rapporto con la Cina sulle politiche climatiche che combini, insieme a una diminuzione graduale della sua dipendenza, anche una cooperazione basata sulle complementarietà e gli interessi comuni.

8 giugno 2025

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