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Contrastanti evoluzioni dei sistemi bancari e finanziari occidentali. L’analisi del professor Roberto Ruozi


Riceviamo e pubblichiamo in anteprima un articolo del professor Roberto Ruozi che sarà pubblicato sul prossimo numero del mensile di economia e finanza “Leasing Time Magazine”, diretto da Gianfranco Antognoli. L’autore è professore emerito dell’Università Bocconi della quale è stato Rettore dal 1995 al 2000. Inoltre ha insegnato nelle Università di Ancona, Siena, Parma, Parigi (Sorbona) e al Politecnico di Milano. È stato presidente del Piccolo Teatro città di Milano e del Touring Club Italiano.

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I sistemi bancari sono in grande movimento in tutto il mondo e soprattutto in quello che un tempo veniva chiamato l’Occidente. La loro evoluzione è confusa, ma intensa. Dove e come finiranno tali sistemi è difficile dire, ma alcune considerazioni possono essere utili per far sì che ciascuno di noi possa immaginare ciò che ritiene più probabile.

Comincerò ricordando che la nuova politica del presidente Trump sta mettendo in difficoltà gli scambi commerciali fra gli USA e l’UE, ma può avere conseguenze di rilievo anche sui rapporti finanziari e bancari delle due zone.

In proposito è bene sapere che i relativi sistemi bancari e finanziari sono piuttosto diversi, ciò che incide sulla loro capacità competitiva. È infatti evidente che quello americano è composto da intermediari di dimensioni molto più grandi di quelli europei e che ha spazi territoriali di influenza molto superiori. In particolare, ha un’attività internazionale che agli intermediari finanziari e bancari europei è sostanzialmente preclusa. In effetti, mentre il sistema americano è integrato e può quindi essere considerato unitario e si muove compatto, quello europeo è frazionato ed è più che altro solo la somma di intermediari quasi esclusivamente domestici, peraltro molto diversi fra loro nei singoli stati anche dal punto di vista normativo e di vigilanza. Finché non sarà realizzato quel mercato bancario e finanziario unico che da anni si auspica, anche le maggiori banche europee, comprese quelle britanniche, saranno sempre perdenti nella lotta competitiva a livello internazionale. Ciò vale anche per le banche italiane, il cui fermento per diverse operazioni di concentrazione allo studio miranti ad aumentare le loro dimensioni, contrariamente a quanto alcuni hanno affermato, non contribuiranno in nessun modo a farle diventare protagoniste a livello internazionale.

Vi è poi un’altra diversità molto importante, cioè la propensione al rischio degli intermediari delle due aree, che caratterizza la catena finanziaria fin dal suo inizio. Di fronte a una propensione al risparmio molto maggiore in Europa rispetto agli USA, vi è infatti una propensione al rischio maggiore in Europa rispetto a quella degli USA, come dimostra il fatto che la cassa e i depositi bancari rappresentano rispettivamente oltre il 30% e poco più del 10% del totale delle attività finanziarie delle loro aree, ciò che porta a dire che gli europei “risparmiano” mentre gli americani “investono”.

Tali investimenti vengono effettuati essenzialmente finanziando anche direttamente le imprese e le famiglie, attività tipica delle banche e degli intermediari non bancari, che un tempo operavano abbastanza distintamente mentre oggi sono strettamente collegati specie perché le stesse banche sono diventate i più importanti finanziatori degli intermediari finanziari non bancari, che sono peraltro i loro concorrenti più temibili.

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Ciò sembra accadere soprattutto perché questi ultimi stanno aumentando le loro erogazioni a favore di imprese non servite dalle banche, che sono in numero crescente e che stanno mediamente presentando un rischio piuttosto elevato, il che preoccupa non poco le banche le quali stanno cercando di limitare i rischi corsi in proprio, ma finiscono per ritrovarli soprattutto nel finanziamento di intermediari che praticano essenzialmente quello che viene chiamato il private credit, che in questi anni è andato molto forte. Sul collegamento in questione c’è una certa preoccupazione perché potrebbe estendere a tali intermediari il rischio sistemico tipico del mondo bancario, che tanti disastri provocò ad esempio durante la crisi del 2007 2008 e che dovrebbe interessare non poco le autorità di vigilanza.

Tali autorità, sollecitate spesso dai governi, non sembrano invece troppo preoccupate di questi problemi e vorrebbero che le banche tornassero ad essere protagoniste di primo piano nel finanziamento dello sviluppo economico. In particolare, la nuova amministrazione americana ha in programma una deregolamentazione progressiva dell’attività delle banche, per liberarle da buona parte dei limiti ai quali sono oggi sottoposte, per aumentare conseguentemente la loro propensione al rischio e quindi la loro volontà di concedere credito all’economia. È peraltro utile ricordare in proposito che in contemporanea la stessa amministrazione sta cercando di rivitalizzare le cosiddette SPAC le quali, dopo i successi di qualche anno fa, hanno ridotto fortemente la loro attività proprio in considerazione del rischio troppo elevato per i loro azionisti. Si può anche pensare che il mondo delle fintech e delle shadow banks, come quello delle cripto valute, insieme al ritorno in attività di molti finanzieri che avevano subito pesanti condanne per reati contro il patrimonio e che sono stati graziati da Trump, aumentino i loro rischi e la loro forza competitiva, creando non poca confusione anche nei rapporti con e fra le banche e aumentando le difficoltà di queste ultime nell’approfittare della regolamentazione prima accennata senza aumentare troppo il rischio globale della loro attività. Tale rischio, del resto, è il perno tradizionale dell’attività bancaria e finanziaria e il suo controllo ha sempre ispirato le norme alle quali essa è stata sottoposta anche se in modo non sempre efficiente ed efficace, che talvolta può addirittura provocare conseguenze peggiori di quelle che vorrebbe evitare.

Il professor Roberto Ruozi

Un caso del genere caratterizza in questi tempi il Regno Unito, dove qualche anno fa l’attività delle banche venne assoggettata a ciò che è stato chiamato il ringfencing, cioè la separazione, da un lato, fra le attività di raccolta dei depositi, la gestione dei pagamenti e il finanziamento delle famiglie e delle piccole e medie imprese e, dall’altro lato, le attività di investimento.

Obiettivo del ringfencing era quello di aumentare la stabilità del sistema bancario britannico e di risparmiare quindi i costi che avrebbero dovuto essere sostenuti nel caso in cui alcune sue componenti finissero in situazione di insolvenza per i danni causati dai rischi corsi.

L’esperienza ha dimostrato che tali obiettivi non sono stati raggiunti e che anzi il ringfencing ha estromesso molte banche specie di piccole dimensioni dal mercato dei finanziamenti alle famiglie e anche alle imprese rendendo più cari quelli ad esse concessi dalle banche grandi, che sono diventati anche più rischiosi. Inoltre, si sono forzatamente finanziati pressoché esclusivamente clienti britannici, aumentando la concentrazione del rischio geografico dei portafogli bancari, l’internazionalizzazione dei quali si è ridotta. Anche le attività di investimento non sono riuscite a svilupparsi.

In sostanza, il ringfencing non ha ridotto le probabilità di rischio di insolvenza delle banche, ma – a parità di altre condizioni – lo ha addirittura aumentato, il che dovrebbe preoccupare anche se il vecchio e tormentato problema del too big to fail che l’aveva ispirato non è più così grave come si pensava un tempo visto che l’esperienza ha dimostrato che, laddove è stato applicato, come è accaduto durante la grande crisi del 2007 2008 già ricordata, ha pesato solo temporaneamente sul bilancio degli Stati i quali, dopo le azioni di ristrutturazione intraprese nelle banche oggetto degli interventi di salvataggio, hanno potuto rimettere sul mercato le relative azioni facendo addirittura interessanti plusvalenze.

Roberto Ruozi



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