(Articolo pubblicato su L’Economista, inserto de Il Riformista)
In un’epoca in cui il dibattito economico si gioca spesso sui grandi numeri, sui tassi di crescita e sui saldi di bilancio, può sembrare marginale soffermarsi su un’onorificenza. Eppure, l’istituzione del titolo di Cavaliere del Lavoro, conferito dal Presidente della Repubblica su proposta del Ministero delle Imprese e del Made in Italy, offre una chiave di lettura preziosa per comprendere l’intreccio tra economia reale, cultura imprenditoriale e capitale sociale in Italia.
Nato nel 1901 per volontà del Re Vittorio Emanuele III, il riconoscimento si proponeva di premiare l’attività di quegli imprenditori che avessero contribuito in maniera significativa allo sviluppo economico e al benessere del Paese. Ma ciò che potrebbe sembrare un retaggio monarchico assume, oggi più che mai, un significato moderno e perfino strategico. In un sistema produttivo come quello italiano, ancora profondamente radicato nella dimensione familiare e territoriale, dove le imprese non sono solo unità economiche ma anche identità culturali e presìdi di coesione sociale, il merito riconosciuto pubblicamente ha un valore che va oltre la celebrazione simbolica.
Dal punto di vista economico, infatti, l’istituzione del Cavalierato del Lavoro rappresenta una forma di investimento nel capitale reputazionale del Paese. Non si tratta solo di riconoscere chi ha già avuto successo, ma di tracciare un modello aspirazionale, di suggerire che l’iniziativa privata, quando guidata da responsabilità, innovazione e visione, merita non solo profitto ma anche stima pubblica. È una forma di “rendimento morale del capitale”, se si può osare la metafora.
La selezione rigorosa — con criteri che includono l’integrità, la sostenibilità aziendale, la capacità di creare occupazione e l’impegno sociale — consente inoltre di creare un canone, un benchmark di eccellenza. Questo è particolarmente rilevante in Italia, dove la distanza tra l’immagine pubblica dell’imprenditore e la sua funzione civile è stata spesso ambigua. Il Cavalierato, in questo senso, agisce come uno strumento di “moral suasion”, invitando il sistema produttivo a farsi carico non solo dell’efficienza ma anche dell’etica del fare impresa.
Ci sono, nella storia di questo riconoscimento, figure che aiutano a comprendere meglio questo valore. Si pensi, ad esempio, a Adriano Olivetti, nominato Cavaliere del Lavoro nel 1952. La sua vicenda imprenditoriale, nota ben oltre i confini italiani, è ancora oggi un paradigma: innovatore instancabile, promotore di un modello aziendale che integrava fabbrica e territorio, produzione e cultura, Olivetti considerava l’impresa come uno “strumento di civiltà”. La sua nomina fu allora la consacrazione pubblica di un modo diverso di concepire l’economia: non solo crescita quantitativa, ma anche crescita qualitativa.
Ma non bisogna guardare solo al passato. Più recentemente, tra i nominati si trovano imprenditori del digitale, dell’agroalimentare d’eccellenza, dell’industria sostenibile. Dietro ogni nome, c’è una storia che parla di sfide vinte senza scorciatoie, di innovazione senza retorica, di internazionalizzazione senza snaturamento. Storie che costituiscono una narrativa economica positiva, in controtendenza con il clima spesso depressivo del dibattito pubblico.
Il titolo di Cavaliere del Lavoro, insomma, non è solo un premio: è un indicatore qualitativo del nostro sistema economico. È una forma di soft power interno, che contribuisce a rafforzare la fiducia tra cittadini, istituzioni e imprese. In un Paese come l’Italia, dove la produttività è spesso ostacolata da sfiducia e frammentazione, coltivare questi simboli di eccellenza può significare molto di più che offrire un’onorificenza. Può significare, in ultima analisi, ridare valore economico al merito, e valore civile al lavoro.
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