Negli ultimi anni, l’intelligenza artificiale è passata dall’essere una promessa futuristica a diventare la parola d’ordine di ogni azienda che voglia apparire innovativa. Una febbre collettiva alimentata da investimenti miliardari, narrazioni visionarie e una competizione serrata tra big tech e startup. Ma proprio dove si annidano le grandi aspettative, proliferano anche gli inganni.
È il caso di Builder.ai, la startup londinese che prometteva di creare app su misura grazie a un assistente AI chiamato Natasha. In realtà, dietro quella facciata digitale operavano oltre 700 sviluppatori in India, incaricati di eseguire manualmente il lavoro che veniva venduto come automatizzato. Una versione moderna del Mechanical Turk, l’automa del XVIII secolo che sembrava giocare a scacchi ma nascondeva un uomo al suo interno.
Il crollo della società, travolta da debiti milionari e da un’inchiesta che ha svelato finte proiezioni di bilancio e fatturazioni sospette, è solo il segnale più eclatante di un fenomeno ben più ampio: l’AI-washing. Un termine che richiama pratiche note come greenwashing o sportswashing, e che descrive l’abitudine di aziende e fondi di investimento di attribuirsi competenze AI inesistenti o sovrastimate per attrarre capitali e notorietà.
A confermare quanto il fenomeno sia radicato, è arrivata a fine maggio la prima multa ufficiale della SEC americana a carico di due società d’investimento, Delphia e Global Predictions, per aver venduto servizi basati su tecnologie AI che in realtà non avevano.
Anche i giganti del tech non sono immuni. Meta, nel tentativo di colmare il divario con OpenAI e Google, ha avviato trattative per acquisire quasi metà di Scale AI, società specializzata nell’etichettatura dei dati per addestrare modelli di intelligenza artificiale. Dietro i proclami futuristici, però, il cuore pulsante dell’operazione resta la manodopera umana: decine di migliaia di freelance sottopagati incaricati di classificare immagini, testi e dati per rendere “intelligenti” i sistemi.
Secondo diversi osservatori internazionali, parte del boom AI si regge su aspettative gonfiate e metriche di performance poco trasparenti. TechCrunch ha rivelato che Meta avrebbe utilizzato versioni ottimizzate e non accessibili al pubblico dei propri modelli AI per scalare classifiche e confronti ufficiali, alimentando così la percezione di un avanzamento più rapido del reale.
L’urgenza di cavalcare il trend si riflette anche nei numeri: uno studio internazionale segnala che, in appena un anno, le aziende che dichiarano di non usare AI sono passate dal 34% al 15%. Ma dietro questa corsa si celano spesso integrazioni superficiali e implementazioni poco efficaci, quando non addirittura fittizie.
Il rischio, ormai evidente, è che l’AI diventi una buzzword buona per ogni occasione, come accaduto a blockchain o NFT, e che l’eccesso di narrazioni fantasiose soffochi la credibilità del settore. È già accaduto con Klarna, che aveva automatizzato il customer service salvo poi tornare a reintegrare personale umano a causa dei disservizi generati dai chatbot AI.
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