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Cina: il drago capitalista –


Lo sviluppo storico della Cina ha seguito un percorso diverso da quello della parte del mondo dove noi abitiamo, che ha visto succedersi prima la società schiavista, poi quella feudale e in seguito quella capitalistica. All’interno di questo schema storico, la Cina è difficilmente inquadrabile. La sua storia millenaria ha delle ripercussioni anche sulla situazione attuale; le incongruenze della Cina rispetto al modello capitalistico tipico dell’imperialismo angloamericano e dei suoi alleati sono semplicisticamente spiegate, spesso, attribuendo al modello cinese l’etichetta di “socialista”. Se ce ne fosse bisogno, le ultime misure adottate dal Partito Comunista e dal governo cinesi dimostrano che invece la Cina, lungi dal socialismo, sta seguendo un proprio modello di sviluppo capitalistico.

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Nel maggio scorso infatti il comitato centrale del Partito Comunista e il governo cinesi hanno elaborato congiuntamente le nuove linee guida in campo economico; queste linee guida mirano a “trasformare più aziende statali e private in aziende innovative, resilienti e competitive a livello globale con moderne strutture di corporate governance”, dice il South China Morning Post. L’obiettivo 2035 per un sistema di corporate governance più raffinato si allinea anche con gli obiettivi di modernizzazione più ampi della Cina per quello stesso anno, traguardi che il governo cinese considera essenziali per raggiungere gli Stati Uniti.

La struttura di governance della Cina, definita moderna nel documento, sarà stabilita in circa cinque anni. L’obiettivo intermedio aiuterà le imprese a contribuire all’innovazione e agli aggiornamenti industriali e ad adempiere alle responsabilità sociali.

Particolare attenzione viene data alla gestione, che dev’essere scientifica e orientata al mercato, al miglioramento della governance presso le società quotate e all’assunzione di investitori istituzionali come azionisti attivi.

Le nuove linee guida si integrano con altre indicazioni centrali. A marzo, il Ministero del Commercio cinese e la Commissione nazionale per lo sviluppo e la riforma, il suo principale pianificatore economico, hanno pubblicato un documento che fissava l’obiettivo di avere entro cinque anni 100 aziende cinesi leader nelle catene di approvvigionamento digitali e legate all’intelligenza artificiale per rafforzare la resilienza e la sicurezza nei settori critici.

La spinta di Pechino arriva mentre le più grandi aziende cinesi hanno perso terreno rispetto ai loro rivali statunitensi. Nel 2024, la Cina continentale e Hong Kong avevano 128 società nella lista Fortune 500, mentre gli USA nella medesima lista avevano 139 società: un capovolgimento, dopo che, nel 2019, le società cinesi avevano detronizzato le loro controparti statunitensi.

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I profitti totali delle imprese statali si sono contratti del 4,4% nei primi quattro mesi del 2025, dopo un calo del 4,6% nel 2024. Le aziende private invece hanno visto i loro profitti aumentare del 4,3% tra gennaio e aprile.

Secondo una definizione largamente accettata, le imprese di proprietà statale nella Repubblica Popolare Cinese (RPC) sono un elemento chiave del sistema economico, basato sul principio della “proprietà pubblica socialista dei mezzi di produzione”. Questo significa che, nonostante l’apertura all’economia di mercato, una parte significativa dell’economia cinese è ancora controllata dallo stato, con le imprese statali che svolgono un ruolo importante in vari settori; ad esse il governo ha attribuito un ruolo che va oltre il semplice profitto e che riflette la continua influenza dello stato nell’economia. Ora però queste nuove linee guida affermano che le imprese che sono grandi ma non forti e redditizie saranno rigorosamente riformate in linea con la moderna governance aziendale.

Alle imprese private sarà concessa una maggiore autonomia nell’adozione di strutture di governance flessibili e gli imprenditori saranno in grado di gestire la propria attività senza un’eccessiva ingerenza statale, anche se esiste un punto nel documento in cui si prevede di rafforzare la leadership del Partito.

Ad aprile la Cina ha approvato una legge per promuovere l’economia privata e dare alle imprese colpite dai dazi USA una maggiore protezione legale contro multe e interferenze definite arbitrarie dal governo cinese.

Facciamo un passo indietro per capire quanto l’attributo di socialista conferito alla realtà economica cinese sia in realtà fuori luogo.

Nel 1953 erano trascorsi quattro anni dalla vittoria dell’Esercito Popolare di Liberazione su Chiang Kai-shek e in quello stesso anno quello stesso Esercito era intervenuto a difesa della Corea invasa dagli USA e dai loro alleati. In quell’anno Mao Zedong, allora Presidente della Repubblica Popolare Cinese, così definì l’economia cinese: “L’economia capitalista nella Cina di oggi è un’economia capitalista che si trova, nella sua stragrande maggioranza, sotto il controllo del governo popolare, è legata in varie forme all’economia socialista a gestione statale ed è sottoposta alla vigilanza degli operai. Non si tratta più di un’economia capitalista normale, ma di un’economia capitalista di un genere particolare, cioè di un’economia capitalista di Stato di tipo nuovo. Essa esiste principalmente non per il profitto dei capitalisti ma per far fronte ai bisogni del popolo e dello Stato. Certo, una parte del profitto prodotto dagli operai va ancora ai capitalisti, ma essa rappresenta soltanto una piccola quota dell’intero profitto, circa un quarto, mentre i rimanenti tre quarti vanno agli operai (come fondi per il benessere), allo Stato (come imposte) e per ampliare gli impianti produttivi (in cui è compresa una piccola parte che produce profitto per i capitalisti). Ne consegue che questa economia capitalista di Stato di tipo nuovo ha un notevole carattere socialista ed è vantaggiosa per gli operai e per lo Stato.”

Questa definizione potrebbe valere anche per la Cina di oggi, solo che da quando Mao scrisse queste righe sono passati più di settant’anni, le forze produttive della Cina hanno visto uno sviluppo impensabile, ma questo sviluppo delle forze produttive, anziché portare alla distruzione dei rapporti di produzione capitalistici, hanno portato all’estensione di questi rapporti a tutta la produzione e alla distribuzione. Oggi il 75% della produzione è assicurato da imprese capitaliste, mentre quelle statali si limitano al 25%. La ricerca del massimo profitto è inoltre il faro che ispira le linee guida approvate a maggio scorso, mentre il ruolo del Partito Comunista all’interno delle unità produttive è assicurare la loro redditività, cioè la capacità di produrre profitti.

Ma più che nell’industria, l’avanzata del capitalismo è significativa in agricoltura e nella sanità, dove, ai primi tentativi di socializzazione, è stata presto sostituita la logica del capitale.

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All’indomani della vittoria nella guerra civile, il governo abolì la proprietà privata della terra, che diventò di proprietà statale, e collettivizzò l’agricoltura per mezzo di cooperative di agricoltori. A partire dal 1958 il Partito Comunista cinese, sotto la guida di Mao Zedong, criticò il modello sovietico di sviluppo basato sull’industria pesante e puntò sulla rapida trasformazione in senso comunista dei rapporti di produzione nelle campagne, accompagnata dal sostegno alla piccola industria rurale. Furono create migliaia di comuni popolari: le oltre 740.000 cooperative di produzione agricola si fusero in 26.000 comuni popolari comprendenti 120 milioni di famiglie.

Questo tipo di organizzazione, nell’intenzione degli ideatori, non si limitava ad essere un’unità economica, ma era anche un’organizzazione basilare del potere statale. Inoltre, essa era la risposta alle esigenze del grande balzo che richiedeva una maggiore estensione delle unità fondiarie. La comune doveva realizzare la collettivizzazione della vita, comprese le forme più elementari dell’esistenza umana, e con ciò preparare il passaggio dal sistema socialista a quello comunista. Al loro interno erano stati aboliti i mercati liberi ed i campi privati precedentemente assegnati alle famiglie. Nel 1984, nell’ambito delle riforme promosse durante la presidenza di Deng, furono definitivamente abolite le comuni popolari e si ridussero progressivamente le unità collettive. Nel 1985 la cessione di quote di raccolto allo Stato fu sostituita dal sistema dei contratti di acquisto negoziati, sistema con cui alle quote di raccolto si sostituivano le imposte. Tale evoluzione fu legittimata dall’emendamento costituzionale del 1993 che rimpiazzava formalmente le comuni con un sistema di responsabilità contrattuale. Questo sistema prevede tuttora che lo Stato affidi in gestione la terra ai singoli capifamiglia per mezzo di contratti.

Anche la sanità ha visto un’evoluzione simile. La storia del servizio sanitario nella RPC può essere divisa in quattro periodi.

La prima fase inizia con la presa del potere da parte del Partito Comunista Cinese nel 1949. Lo Stato era proprietario e fornitore di tutti i servizi sanitari e i professionisti sanitari erano suoi dipendenti. Una peculiarità che ebbe un discreto successo, in questa fase, fu l’impiego dei cosiddetti medici scalzi per fornire servizi essenziali di sanità pubblica e di cure primarie nei villaggi rurali. Tra il 1952 e il 1982 i tassi di mortalità infantile in Cina crollarono da 200 a 34 ogni 1000 nati vivi e furono quasi totalmente debellate malattie come la schistosomiasi, che da secoli affliggevano il Paese.

Nel 1984 cominciò una fase nuova. Anche il sistema sanitario fu coinvolto nelle riforme volute dal governo per convertire la Cina in una economia di mercato. Il finanziamento governativo degli ospedali fu drammaticamente ridotto e molti operatori sanitari, tra i quali anche i medici scalzi, finirono per perdere il loro sussidio pubblico. Il governo era ancora il proprietario degli ospedali, ma esercitava scarso controllo sulle organizzazioni sanitarie, che vi operavano quindi come entità for-profit in un mercato senza regole. La maggior parte della popolazione rimase senza copertura assicurativa, dato che il governo non fornì alcuna copertura e non vi erano compagnie assicurative private. Nel 1999, solo il 49% della popolazione delle città possedeva un’assicurazione sanitaria, perlopiù stipulata con imprese statali o governative, ed appena il 7% della popolazione rurale godeva di una qualche forma di copertura.

Nel 2003 cominciò una nuova fase, quando il governo cinese introdusse delle coperture assicurative per coprire le spese sanitarie ospedaliere dei residenti nelle aree rurali. Non sorprende che le riforme del 2003 non furono sufficienti a risolvere le profonde problematiche del sistema sanitario cinese.

A partire dal 2008, il sistema sanitario continuò ad essere basato principalmente sul mercato ma dal 2012, un sistema assicurativo finanziato dal governo cominciò a fornire al 95% della popolazione una pur molto modesta copertura. Il governo si sforzò inoltre di creare un sistema di cure primarie.

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Oltre ai dati dell’industria, anche quelli dell’agricoltura e della sanità mostrano quindi che il governo cinese è orientato alla liquidazione di quel che resta di strutture socialiste nel Paese, evitando passaggi critici come quelli che hanno portato al dissolvimento dell’Unione Sovietica.

Tiziano Antonelli18



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