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l’ipocrisia occidentale dopo gli attacchi israeliani


In Italia, l’adesione al movimento Donne, Vita, Libertà è stata rapida, visibile, unanime. Celebrità, influencer, politici e media hanno amplificato slogan, condiviso post, organizzato eventi. Ma mentre in Iran si pagava con la vita, qui si raccoglievano applausi. Nessuno rischiava nulla. Anzi, sostenere quella battaglia era perfettamente compatibile con gli interessi del nostro Paese, utile a rafforzare la narrazione “giusta” del mondo: noi, paladini dei diritti; loro, il regime da abbattere.

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Eppure oggi, di fronte all’aggressione israeliana contro l’Iran, molti di quegli stessi nomi tacciono. Oppure parlano in modo ambiguo, cercando un equilibrio impossibile tra due lati che non sono equivalenti. Alcuni danno la colpa “a entrambi”, altri evitano il tema, altri ancora si schierano apertamente con Israele. Nessuno, o quasi, ha ricordato che anche in questo caso esiste un diritto internazionale, che un Paese aggredito – l’Iran – ha diritto alla difesa. Le stesse voci che ieri si proclamavano solidali con le donne iraniane oggi non osano nemmeno pronunciare la parola “illegalità” a proposito dei bombardamenti israeliani.

Il punto è che per molti Donne, Vita, Libertà non è mai stato un impegno reale: è stato un modo per sentirsi dalla parte giusta senza mettere in discussione nulla. Un gesto comodo, che non implicava alcun rischio né cambiamento di prospettiva. Si sosteneva la donna iraniana come figura astratta, simbolica, utile per rafforzare la propria identità morale in Occidente — non come soggetto reale, complesso, inserito in una dinamica geopolitica che oggi ci chiama in causa.

Perché questo richiederebbe una cosa molto difficile per l’Occidente: guardarsi allo specchio. Riconoscere il proprio privilegio. Significherebbe, soprattutto, uscire da quella comfort zone in cui si può essere “femministi”, “progressisti”, “antirazzisti”, senza mai disturbare l’ordine geopolitico di cui si beneficia.

Chi oggi condanna entrambi i governi riguardo a questa guerra, dopo essersi tagliato la ciocca di capelli in piazza, non è coerente: è in malafede. Perché sa benissimo che l’Iran sotto attacco cambia la cornice. E allora si rifugia nella neutralità, oppure sulla retorica della difesa dei civili da entrambe le parti senza prendere una posizione seria.

E soprattutto, non si può parlare al loro posto – scegliendo di volta in volta quali voci ascoltare, quali ignorare, quali premiare, in base ai nostri gusti o alle nostre convenienze politiche. Farlo significa esercitare una forma di colonialismo, che pretende di selezionare chi è degno di rappresentare una lotta e chi no, chi merita visibilità e chi deve restare ai margini. Un esempio evidente è la tendenza a condividere sistematicamente le dichiarazioni di iraniani monarchici, spesso residenti negli Stati Uniti e apertamente filo-israeliani, come se fossero rappresentativi del popolo iraniano.

Questo serve solo a rafforzare una narrazione funzionale all’Occidente, cancellando la complessità delle voci dissidenti iraniane, la maggior parte delle quali si oppongono totalmente all’imperialismo e all’occupazione occidentali. È un meccanismo che svuota di significato le battaglie altrui, trasformandole in strumenti al servizio delle nostre agende ideologiche. Ma la solidarietà non può essere selettiva né condizionata dal nostro bisogno di sentirci dalla parte giusta. Ascoltare davvero significa accettare il disordine, il conflitto, le contraddizioni, e anche le parole scomode che mettono in discussione le nostre posizioni.

Sostenere davvero la libertà degli altri significa, prima di tutto, mettere in discussione la propria complicità, il proprio privilegio e il sistema in cui si vive, essendo quello più forte. E in Italia, questo resta ancora il grande tabù. Troppo più facile esibire coraggio dove non serve, e rimanere zitti quando sarebbe necessario parlare.

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