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Minardo su Edip: “Regole troppo rigide bloccano la Difesa europea


Costruire una base industriale comune è considerato la base per la realizzazione di una Difesa europea. A tal fine, i 27 hanno di recente approvato un nuovo regolamento, l’European defence industrial programme (Edip), il cui obiettivo è implementare quanto previsto dalla Strategia per l’industria della difesa europea (Edis), aumentando la cooperazione tra industrie degli Stati membri. Sul regolamento, però, sono state sollevate delle osservazioni da parte italiana. La principale preoccupazione del nostro Paese è che per perseguire un obbiettivo giusto si ricorra a strumenti che invece rischiano di minare la solidità della base industriale della difesa europea. Un tema sottolineato anche dal Presidente della Commissione Difesa della Camera dei Deputati, Nino Minardo.

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Presidente, Quale ritiene essere il vero nodo critico sul regolamento Edip?

Il nodo critico del regolamento Edip sta nell’eccessiva rigidità dei criteri di eleggibilità, che rischia di tradursi in un paradosso: nel tentativo di rafforzare la base industriale della difesa europea, si finisce per escluderne una parte significativa. Il rischio è che, volendo perseguire un’autonomia strategica giusta nei principi, si adottino strumenti tecnici che danneggiano proprio quei soggetti industriali — come molte imprese italiane — che sono già oggi protagonisti dell’ecosistema europeo della difesa.

Il regolamento prevede l’esclusione dai fondi europei per i prodotti con componenti extra-UE oltre il 30%. Secondo lei, questo vincolo è tecnicamente sostenibile per l’industria europea, oppure rischia di penalizzare proprio le filiere più avanzate, Italia inclusa?

È un vincolo che, nella forma attuale, non tiene conto della realtà industriale europea. Le supply chain della difesa sono complesse, stratificate, e spesso coinvolgono partner e componenti extra-UE che non possono essere facilmente sostituiti senza compromettere la qualità o la funzionalità dei sistemi. Questo tetto rigido penalizza le filiere più integrate e avanzate, che sono anche quelle più internazionalizzate — e tra queste c’è l’Italia. Invece di rafforzare l’industria europea, rischia di renderla meno competitiva e più isolata.

Alcuni quotidiani hanno descritto la posizione italiana come un ostacolo alla costruzione di una vera difesa comune europea. Le riserve nel nostro Paese sono descritte come legate alla volontà di non compromettere la partnership con gli Stati Uniti. Ma non è forse più corretto dire che l’obiezione italiana è di tipo industriale e tecnico, considerando la complessità delle supply chain europee?

Assolutamente sì. L’Italia non sta mettendo in discussione il principio di una difesa comune europea, né sta agendo per tutelare interessi extraeuropei. La nostra posizione è pragmaticamente industriale e tecnicamente fondata: vogliamo evitare che l’Europa si dia regole autolesionistiche. L’obiettivo comune è giusto — una maggiore autonomia — ma non può essere perseguito a scapito della sostenibilità dell’intera filiera continentale.

Alla posizione italiana viene contrapposta invece una “virtuosa” posizione francese a supporto senza riserve del nuovo regolamento. Tuttavia, i vincoli espressi da Edip penalizzano sicuramente anche le industrie transalpine. Pensa che possa esserci dell’altro dietro la posizione di Parigi?

Ogni Stato membro interpreta la costruzione della difesa europea anche alla luce delle proprie priorità industriali e strategiche. La Francia ha una struttura industriale molto concentrata e in grado di beneficiare più facilmente di regolamenti disegnati su criteri rigidi. Non è una colpa, ma è evidente che la posizione francese rispecchia un modello diverso da quello italiano, fatto invece di una filiera più articolata e diffusa. Serve un approccio più equilibrato, che tenga conto delle diverse realtà nazionali e favorisca davvero un’integrazione europea, non una concentrazione.

Quali sono le proposte italiane concrete per correggere il testo dell’Edip? E quali garanzie ritiene siano necessarie per evitare che il regolamento, nato per unire, finisca per escludere la maggior parte dell’industria europea dai progetti strategici di difesa?

L’Italia propone di introdurre criteri di flessibilità più realistici, in particolare rivedendo la soglia del 30% per i componenti extra-UE. Non si tratta di abbassare la guardia, ma di riconoscere che la resilienza passa anche dalla capacità di mantenere l’efficienza e la competitività delle nostre imprese. Servono garanzie che i progetti strategici non diventino appannaggio di pochi grandi gruppi nazionali, ma coinvolgano tutta la base industriale europea, valorizzando anche le PMI, le competenze diffuse e le eccellenze tecnologiche che, in Italia, sono spesso al servizio dell’Europa da decenni.

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