Quando un semplice indirizzo email diventa il teatro invisibile di una contesa geopolitica, è lecito interrogarsi su quanto la sovranità giuridica e politica degli Stati – o delle istituzioni internazionali – possa dirsi realmente tutelata, soprattutto in un’epoca in cui le infrastrutture digitali non appartengono più al dominio pubblico, ma sono concentrate nelle mani di pochi attori privati, per lo più radicati in un solo ordinamento nazionale: quello degli Stati Uniti d’America.
Ecco cosa significa il caso Microsoft-Icc e quale impatto ha sulla fragile autonomia europea.
L’ordine dell’amministrazione Trump nel febbraio 2025
Non è distopia, ma cronaca recente. Lo racconta un’inchiesta del New York Times.
In esecuzione di un ordine emanato dall’amministrazione Trump nel febbraio 2025, Microsoft ha sospeso l’account email istituzionale del procuratore capo della Corte Penale Internazionale, Karim Khan, “colpevole” – agli occhi del potere politico statunitense – di aver aperto un’indagine su presunti crimini di guerra commessi da Israele nella Striscia di Gaza.
Ciò che potrebbe apparire come un episodio puramente tecnico o amministrativo, si rivela, in realtà, l’espressione evidente di una frattura ben più profonda: quella tra l’imperativo giuridico internazionale e il potere tecnologico privato statunitense, tra il diritto sovranazionale e la forza di mercato di soggetti che, pur operando in ambiti apparentemente neutri, finiscono per trasformarsi in strumenti di pressione politica globale.
Infatti, la decisione dell’azienda americana, seppur conforme alla normativa statunitense in materia di sanzioni, ha avuto come effetto quello di interrompere – seppur temporaneamente – il flusso di comunicazioni ufficiali di uno dei massimi rappresentanti della giustizia penale internazionale, gettando un’ombra inquietante sulla tenuta operativa e simbolica di un’istituzione fondata sul diritto internazionale.
Purtroppo non sembra difficile intuire il messaggio implicito: laddove la politica estera di una superpotenza entra in conflitto con le decisioni autonome di una corte internazionale, sarà quest’ultima a pagare il prezzo della propria indipendenza, se priva delle garanzie minime di autonomia tecnologica.
Kill switch: come Trump minaccia la sovranità digitale europea
A questo punto sembra doveroso chiedersi se è davvero possibile, oggi, parlare di indipendenza giuridica se gli strumenti che consentono a un procuratore internazionale di esercitare le proprie funzioni – posta elettronica, archiviazione documentale, comunicazioni interne – possono essere sospesi, limitati o disattivati in forza di un atto amministrativo adottato da un’autorità esterna e, per giunta, terza rispetto al contesto giudiziario coinvolto.
La domanda non è oziosa né meramente accademica. Tocca, infatti, il cuore stesso del rapporto tra diritto e potere in un’epoca in cui il controllo delle infrastrutture non si misura più in chilometri di territorio, ma in righe di codice, in licenze software, in policy aziendali scritte da soggetti estranei al circuito democratico e giurisdizionale.
Quindi, se l’architettura digitale della giustizia internazionale dipende da fornitori privati soggetti a logiche geopolitiche nazionali, allora la neutralità funzionale delle istituzioni sovranazionali non è soltanto vulnerabile, ma -probabilmente – strutturalmente compromessa.
E, in questa prospettiva, l’episodio Microsoft–ICC assume il valore di un importante precedente simbolico poiché ha mostrato con maggiore forza quanto possa essere fragile l’autonomia istituzionale in un mondo in cui la tecnologia è centralizzata, normativamente controllata e politicamente strumentalizzabile.
Se il primo effetto è stato la chiusura di un semplice account email, il secondo – ben più inquietante – è stato l’avvertimento lanciato a tutte le istituzioni europee: nessuno è al sicuro quando l’infrastruttura che regge la democrazia non appartiene più a chi la esercita.
Geopolitica dell’infrastruttura: il nuovo diritto globale del XXI secolo
Il problema non riguarda solo la Corte Penale Internazionale. Ogni agenzia, ogni ente pubblico, ogni università o pubblica amministrazione europea che si affidi a servizi cloud, sistemi operativi o software statunitensi è potenzialmente esposta al rischio di un’interferenza “legittima” da parte di un ordinamento terzo, non per dolo, ma per asimmetria.
La dimostrazione è duplice:
- un ordine esecutivo presidenziale emanato negli Stati Uniti può produrre effetti immediati sulla capacità operativa di un procuratore all’Aia;
- un conflitto diplomatico può tradursi in una sospensione tecnica di dati, comunicazioni, accessi.
Questo è il volto del nuovo diritto globale nel XXI secolo: un diritto che si trova a rincorrere, spesso con impaccio, un’architettura tecnica che non ha contribuito a progettare e che oggi plasma silenziosamente i confini della sua applicabilità.
L’emancipazione europea
In tale contesto, le riflessioni in seno all’Unione europea sulla costruzione di un’infrastruttura tecnologica “sovrana” non sono un capriccio ideologico. Ma una necessità sistemica, imprescindibile per tutelare non solo la competitività industriale del continente, ma la stessa possibilità dell’Europa di autodeterminarsi sul piano normativo, giudiziario e democratico.
Ma è davvero realistico pensare che l’Europa possa emanciparsi, nel breve periodo, da un ecosistema tecnologico così profondamente radicato? La risposta è tutt’altro che semplice.
Le grandi aziende americane detengono oltre il 70% del mercato europeo del cloud computing, controllano l’architettura dei sistemi operativi, stabiliscono gli standard dell’intelligenza artificiale e impongono regole di interoperabilità che diventano di fatto norme globali.
Quindi, quale libertà di regolazione può vantare un’Unione Europea che dipende, in ogni sua articolazione, da una ristretta élite tecnologica con sede a Seattle o in California? Quale margine di manovra rimane quando il braccio operativo del diritto – la tecnologia – è saldamente nelle mani dell’altro?
Il caso Microsoft-Icc come campanello d’allarme
Diventa a questo punto chiaro che il caso Microsoft–ICC non deve essere interpretato come un’eccezione, bensì come un campanello d’allarme.
Infatti è l’avvisaglia concreta di un equilibrio instabile, in cui il diritto internazionale rischia di diventare ostaggio delle decisioni unilaterali di singoli Stati. O, peggio ancora, dei processi automatici di compliance attivati da aziende che operano su scala globale, ma rispondono a logiche normative locali.
Riflessione geopolitica e costituzionale
Si impone una riflessione non solo geopolitica ma anche costituzionale: è ancora possibile affermare la piena autonomia dell’ordinamento europeo in presenza di una colonizzazione tecnologica tanto strutturale quanto silente? E quale significato può avere la “rule of law” se gli strumenti per attuarla sono governati da interessi estranei alla sfera del diritto e sottratti al controllo democratico?
L’episodio dell’email di Karim Khan può apparire marginale nella sua forma, ma è paradigmatico nella sua sostanza. Rappresenta una prova generale di ciò che potrebbe accadere in un futuro segnato da crescenti tensioni globali, in cui la tecnologia diventa un’arma non convenzionale e il diritto cessa di essere neutrale, assoggettandosi alla geopolitica dell’infrastruttura.
La sovranità digitale non è un tecnicismo per addetti ai lavori. Invece è il terreno decisivo su cui si gioca la sopravvivenza dell’indipendenza politica, la tutela dell’autonomia giuridica e la possibilità stessa di un’Europa che non sia ridotta al ruolo di periferia amministrativa di un impero tecno-normativo straniero.
La risposta a questa sfida non può essere episodica né reattiva: dev’essere strutturale, coraggiosa e lungimirante, altrimenti, rischiamo di svegliarci in un continente formalmente libero, ma tecnicamente ostaggio di un cloud che obbedisce ad altri sovrani.
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