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SCENARIO DAZI/ Le incertezze di Trump e dell’Ue pesano sulle imprese italiane


Continua a esserci incertezza riguardo il possibile accordo sui dazi tra Usa e Ue e questo non aiuta certo le imprese italiane

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Il Consiglio europeo si è concluso con una ventata di ottimismo sul conflitto economico con gli Stati Uniti. Ursula von der Leyen spera di raggiungere un accordo entro la scadenza del 9 luglio annunciata da Donald Trump, Giorgia Meloni ha detto che bisogna fare presto, chiudere subito su dazi del 10% e lasciare i dettagli per il dopo. Purtroppo i dettagli sono tutto, ancor più quando si sono in ballo i quattrini e gli interessi economici.



Non solo. Proprio mentre da Bruxelles spirava una “auretta assai gentile” (con licenza rossiniana) Donald Trump rompeva i timpani tuonando contro l’Europa: “L’Ue si è comportata male, è molto cattiva, ma noi abbiamo le carte in mano, con alcuni Paesi faremo accordi, altri dovranno pagare”, ha detto. Nello stesso tempo il Presidente ha interrotto le trattative con il Canada: “Ci è stato comunicato – ha scritto Trump su Truth social – che il Canada, un Paese con cui è molto difficile commerciare, incluso il fatto che per anni ha applicato ai nostri agricoltori dazi fino al 400% sui prodotti caseari, ha annunciato che introdurrà una Digital Services Tax sulle nostre aziende tecnologiche americane, il che rappresenta un attacco diretto e sfacciato al nostro Paese”.



La digital tax è uno di quei “dettagli” che dividono anche Washington e Bruxelles. Il 10% al quale si riferivano Ursula e Giorgia non ha nessuna clausola di reciprocità, si era partiti con “zero dazi per zero dazi” formula amata da Emmanuel Macron, si chiude con così è se gli pare. Trump cambia ogni minuto anche se tiene duro su un’idea fissa: far pagare quelli che dovrebbero essere amici e compiacere quelli che dovrebbero essere nemici. Così, fa il duro con gli europei e con i canadesi, ma poi concede ai cinesi ciò che a Pechino interessa di più: le terre rare o comunque strategiche, comprate grezze in giro del mondo, processate in Cina e vendute negli Usa e in Europa.

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È questo il vero problema, non solo e non tanto la percentuale delle tariffe applicate. Trump è mobile come piuma al vento. Su tutto in fondo si può discutere, ogni cosa può essere negoziabile, anche la tassa sui servizi digitali che colpisce un pezzo importante del blocco economico che ha sostenuto il Presidente americano, se però non cambiano in ogni momento i termini del confronto, se il libero mercato non diventa un bazar.

Non solo. Nonostante la Federal Reserve non riduca i tassi d’interesse facendo imbufalire Trump (il banchiere centrale Jerome Powell ha già perso il posto e non vuole uscire facendo la figura del burattino), il dollaro continua a svalutarsi anticipando l’impatto inflazionistico delle tariffe. Ciò rende più competitive le merci americane rispetto a quelle europee e del resto del mondo. Uno svantaggio per noi che s’aggiunge alle tariffe da caricare sulle merci esportate.

Oggi sono in vigore dazi del 25% sull’acciaio, l’alluminio e le auto e del 10% su molti altri prodotti. Trump minaccia rialzi fino al 50%. Washington ha inviato un nuovo documento che Bruxelles sta esaminando, ha detto Ursula von der Leyen.

L’ottimismo, sia pur cauto, non convince i produttori e gli esportatori italiani i quali stanno già pagando i costi del protezionismo americano. Non condividono nemmeno la rincorsa di Wall Street che ha recuperato la caduta dello scorso novembre. Anche qui, i trombettieri della finanza barano un po’, perché se l’indice Standard& Poor’s delle prime 500 imprese ha toccato un record a 6.180 punti, lo stesso non si può dire di altri indici a cominciare dal Nasdaq.

I Magnifici Sette titoli, quelli di Big Tech, che avevano guidato la corsa prima delle elezioni di Trump non stanno andando altrettanto bene, abbiamo visto il crollo di Tesla, ma anche Google e Apple sono lontani dai loro massimi. Forse è per questo che bussano alle porte della Casa Bianca e battono il tasto della digital tax. Ne va delle loro esportazioni nei mercati ricchi (Europa e Canada) dopo le battute d’arresto in quello cinese.

Se tutta questa nebbia non si diraderà è possibile che si vada a un rinvio a settembre, ne ha parlato il segretario al Tesoro Scott Bessent colui che ha davvero l’ultima parola sui dazi. E questo allunga l’ombra dell’incertezza. C’è da chiedersi chi davvero è disposto a rischiare o prendere decisioni di medio periodo investendo in attività produttive.

Ad aprile produzione e fatturato hanno mostrato una leggera ripresa dopo ben 26 mesi in continua caduta. Un segnale di resistenza del tessuto produttivo, nonostante tutto, ma per tornare a crescere davvero occorrono due condizioni: che si faccia chiarezza sui mercati internazionali, vitali per le imprese italiane, e che il governo metta all’ordine del giorno una politica per l’industria.

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Proposte ce ne sono in quantità, dalla sburocratizzazione al fisco, dal sostegno alla transizione digitale alle misure per attrarre non solo capitale, ma produzione e lavoro. E c’è la questione che più sta a cuore: il divario dei costi e dei prezzi dell’energia, a cominciare da quella elettrica, rispetto agli altri paesi. L’Arera nel suo ultimo rapporto ha calcolato che le famiglie italiane pagano più delle altre nella zona euro, subito dopo quelle tedesche. Se prendiamo le imprese, soprattutto piccole e medie, sono le più tartassate. Si fa un gran parlare, si progettano futuri nucleari costosi e certo non prevedibili, ma non c’è nulla di concreto qui ed ora.

È arrivata l’estate, picchia il solleone, poi ci sono le ferie. Tutto è rinviato. Ma settembre potrebbe essere troppo tardi.

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