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Uno Space Act europeo timido, poco concreto, forse inutile


Pur riconoscendo un buon livello competitivo all’industria spaziale europea, il rapporto Draghi non faceva sconti, sottolineando specie nel segmento upstream, quello che si riferisce ai lanci e alle infrastrutture e alla manifattura sottostanti, il rischio di una crescente dipendenza strategica. Per correggere la rotta, l’ex presidente del Consiglio invocava tra l’altro un finanziamento pubblico maggiore e più coordinato, più investimenti in ricerca e sviluppo, un migliore accesso alla finanza da parte delle imprese innovative, una governance più semplice e meno frammentata, una maggiore integrazione tra spazio e difesa. Mercoledì scorso la Commissione europea ha incominciato a dare qualche risposta, con la proposta di regolamento sullo spazio e un documento di visione sull’economia spaziale europea.

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In effetti, una cornice legislativa comune era auspicata dallo stesso Mario Draghi, e già annunciata come uno degli ultimi atti della scorsa legislatura prima di essere rinviata alla nuova. Tanto che, nel frattempo, l’Italia si è dotata della sua prima legge spaziale, pubblicata proprio nei giorni scorsi in Gazzetta Ufficiale. La proposta della Commissione, che non brilla per brevità (ben 119 articoli per un documento in totale di 149 pagine, senza considerare i vari allegati), si poggia su tre pilastri: sicurezza, resilienza e sostenibilità. Si parte da giuste premesse: lo spazio è sempre più congestionato, con oltre 11.000 satelliti in orbita e altri 50.000 che dovrebbero essere lanciati nel prossimo decennio, e questo lo rende più insicuro. Insieme alle minacce cibernetiche che colpiscono satelliti, stazioni di terra e collegamenti di comunicazione. Infine, man mano che le attività spaziali crescono, la gestione delle risorse, delle emissioni di CO2 e dei detriti diventa cruciale. Da qui la necessità di prevedere delle regole affinché lo spazio non diventi sempre di più un Far West, e prima che la situazione sfugga di mano. Tutto perfettamente logico.

Peccato però che dello spazio l’Ue controlli una porzione sempre più residuale. Basti pensare che dei circa 11.700 satelliti attivi l’Europa ne conta appena cinquecento, dunque il 4,3%. Dei 259 lanci orbitali effettuati nel 2024, solo 2 hanno visto protagonisti vettori europei contro i ben 154 americani (di cui 90 imputabili a SpaceX, guidata da Elon Musk) e i 68 cinesi. Dei 2.877 satelliti messi in orbita lo scorso anno, ben il 79% era appannaggio degli USA, in gran parte di Starlink, divisione di SpaceX. Se si guarda ai programmi futuri, attenendoci quantomeno alle informazioni di pubblico dominio, dei 50.000 satelliti che dovrebbero essere lanciati nel prossimo decennio, quelli europei potrebbe non andare oltre i 400-450, dunque meno dell’1% del totale. Dunque benissimo uniformare le regole e attrezzarsi sul fronte della cybersecurity per proteggere i nostri asset spaziali nonché lavorare in direzione del riuso dei lanciatori, la principale innovazione di SpaceX. Ma pretendere di incidere su questioni rilevanti come quelle della congestione e della sostenibilità dello spazio con percentuali da prefisso telefonico appare ambizioso, per usare un eufemismo.

E rischia di portare il Brussels effect a un punto di rottura. Da un lato per la prevedibile indisponibilità delle superpotenze spaziali di sottostare alle regole decise da attori poco più che irrilevanti (quantomeno sul piano dell’offerta), dall’altro per il rischio paradossale di rendere ancora meno competitive le imprese europee, dunque facendo l’operazione opposta di quella che servirebbe per renderle concorrenziali rispetto a quelle americane o cinesi. Infine, il vero rischio, di cui abbiamo un esempio più che concreto nell’intelligenza artificiale, è che pur volendo contemporaneamente regolare e investire nelle tecnologie spaziali alla fine ci si concentri fatalmente sul primo fronte, lasciando scoperto il secondo. Anche perché quest’ultimo è sotto la prevalente gestione degli Stati membri. Che Bruxelles ha sfidato sul terreno della regolazione, prevedendo lo strumento del regolamento, direttamente applicabile senza possibili interpretazioni nazionali, anziché della direttiva, ma ha appena solleticato nel documento di visione, che dovrebbe indirizzare l’altro pilastro. Appare infatti molto timido nell’invocare un maggiore budget pubblico, a livello europeo o quantomeno sotto forma di maggiore coordinamento dei programmi nazionali, è silente sul principio del ritorno geografico (che di per sé è la principale causa della frammentazione del sistema industriale europeo e non a caso è la seconda ricetta settoriale suggerita da Draghi), prova a risolvere la questione della governance unitaria (il primo punto delle prescrizioni draghiane) con la creazione di un Forum, chiamandolo Space Team Europe, pur di non togliere alcuna prerogativa agli attori presenti e rinuncia perfino a proporre una rappresentanza unica dell’Ue nell’Agenzia Spaziale Europea, altro consiglio dato dall’ex governatore della Bce. Fa qualcosa in più sul fronte del procurement (interessanti le proposte di Central Purchasing body e Dynamic Purchasing System, che centralizzerebbero di fatto gli acquisti innovativi). E si propone lodevolmente di sviluppare una serie di metriche per monitorare il contributo del settore alla competitività europea oltre a collegare l’asse verticale dello spazio a quelli orizzontali delle startup e scaleup e delle competenze, oggetto delle rispettive strategie pubblicate negli scorsi mesi dalla Commissione.

Tutto questo sarà sufficiente a rendere l’Europa più competitiva rispetto ai treni in piena corsa americano e cinese, per non parlare di potenze emergenti quanto scalpitanti come l’India? La domanda suona purtroppo del tutto retorica, anche se proprio il vertice Nato degli scorsi giorni potrebbe fornire un assist (sempre che non sia stato principalmente un’ammuina per addomesticare gli istinti peggiori del presidente americano). Perché non destinare una quota parte di quel 5% del Pil da destinare alla difesa allo spazio, tenendo peraltro conto che il budget pubblico Ue è al contrario di quello Usa, cinese e russo del tutto sbilanciato sugli usi civili rispetto a quelli militari e dunque necessiterebbe di un urgente riequlibrio? Allora sì che con un po’ più di coraggio si potrebbero fare tante cose, senza la necessità di affidarsi unicamente, anche a sprezzo del ridicolo, all’effetto Bruxelles.



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