I dati sono sempre più bassi di quelli europei: è una costante quanto di parla di lavoro delle donne. Con un tasso di occupazione femminile sotto il 53%, l’Italia è fanalino di coda nell’Europa a 27, dove in media lavorano sette donne su dieci. Il divario con i colleghi uomini sfiora il 18%, il
doppio rispetto all’Ue. Se si guarda ai vertici aziendali, la situazione non cambia: solo il 35% delle donne ricopre posizioni apicali nell’Ue, percentuale che in Italia crolla sotto il 28%. Malgrado i progressi compiuti negli ultimi dieci anni, nel complesso le donne restano relegate ai margini del mercato del lavoro, complici le barriere, strutturali e culturali, che si frappongono alla loro piena realizzazione come lavoratrici e imprenditrici.
Questi dati fanno parte del report realizzato da Deloitte con la collaborazione di UN Women Italy e Winning Women Institute e presentato a Milano in occasione dell’incontro La parità di
genere (non) è un’impresa: un confronto tra istituzioni e aziende per esplorare gli strumenti e le politiche che possono contribuire concretamente a colmare il divario di genere, favorire la cultura dell’inclusione e rilanciare l’economia.
Certificazioni di parità
Accanto agli interventi normativi, dai congedi parentali obbligatori alle cosiddette quote rosa nei Cda 2 , linee guida e sistemi di certificazione volontaria possono concorrere in modo significativo alla parità di genere nelle aziende. È il caso dei Women’s Empowerment Principles (WEPs), un insieme di princìpi elaborati nel 2010 da UN Women e UN Global Compact in base a standard internazionali in materia di lavoro e diritti umani. Si tratta di pratiche aziendali che promuovono un ambiente di lavoro inclusivo, a cominciare da retribuzioni eque, non discriminazione, orari di lavoro flessibili, pari avanzamento di carriera, prevenzione e tolleranza zero nei confronti delle molestie sessuali, tutela della sicurezza e della salute. Attualmente sono circa 112mila le imprese italiano è invece quello della certificazione UNI/PdR 125:2022. Secondo i dati elaborati dall’Osservatorio di Winning Women Institute, a tre anni dalla pubblicazione, sono oltre 8.100 le imprese certificate, a testimonianza del cambiamento innescato sul fronte delle tematiche di genere e di responsabilità sociale. La certificazione, la quarta più adottata dalle aziende italiane, deve il proprio successo anche a politiche pubbliche di sostegno alle imprese, dagli sgravi contributivi ai punteggi nelle gare d’appalto.
«Mi piace paragonare entrambi gli strumenti a un termometro con il quale le aziende possono misurare il proprio stato di salute rispetto al tema della parità di genere e monitorare i progressi compiuti per colmare il divario. La certificazione UNI/PdR 125:2022 in particolare si conferma un caso di successo, non solo per il numero di aziende coinvolte ma anche per aver saputo attrarre settori storicamente considerati appannaggio degli uomini, come quello delle costruzioni. Senza contare la massiccia adesione delle piccole e medie imprese. Per questo è essenziale che i fondi stanziati con il Pnrr, ormai in esaurimento, vengano rifinanziati», commenta Paola Corna Pellegrini, membro del board di UN Women Italy e presidente Winning Women Institute.
Il ritardo dell’Italia
Nessun paese, secondo il Global Gender Gap Report 2025 del World Economic Forum, ha ancora raggiunto la piena parità di genere. A questi ritmi, è la stima, ci vorranno oltre 120 anni per raggiungere l’obiettivo. L’Europa guida la classifica, ma il quadro nel vecchio continente è
tutt’altro che omogeneo: l’Islanda saldamente in testa e l’Italia all’85esimo posto, in crescita di
appena due posizioni rispetto al 2024.
All’origine dello stallo, gli ostacoli persistenti che frenano il progresso delle donne a livello globale, tanto sul piano culturale (pregiudizi e stereotipi di genere) quanto su quello economico, come politiche di welfare inadeguate e accesso al credito limitato. Emblematico il dato sulle start-up innovative in Italia: nel 2023 solo il 13.7% vede una prevalenza di donne. Entrando nei Consigli di amministrazione delle società quotate la situazione non cambia: appena il 2.9% è guidato da donne, come certifica l’Istat. Non va meglio nelle aziende tecnologiche: secondo l’Unesco, a livello globale appena il 12% delle donne è impiegato nel settore della ricerca applicata all’intelligenza artificiale e solo il 6% nello sviluppo di software.
L’intelligenza artificiale e il gender gap
Un quadro, questo, che è riflesso della scarsa adesione delle donne ai percorsi accademici in ambito scientifico e tecnologico. Pur rappresentando quasi il 55% delle iscrizioni complessive a livello europeo, le studentesse nei corsi STEM sono appena un terzo. Percentuale che scende al 20,6% nel caso degli studi in ICT. Un aspetto tanto più significativo per le implicazioni che può avere sugli sviluppi delle nuove tecnologie, a cominciare da un’intelligenza artificiale che incorpora e amplifica pregiudizi e disuguaglianze di genere. Se fondata sulla parità e sull’inclusione, l’AI
al contrario può dispiegare grandi opportunità.
«Se la metà delle donne in Italia non lavora, è l’intero Paese a perdere. Serve un cambio di rotta già a scuola: tecnologie e intelligenza artificiale stanno ridisegnando le competenze e i mestieri del futuro. Se ben guidate e orientate, le ragazze hanno tutto il potenziale per guidare da protagoniste il cambiamento e conquistare la propria autonomia economica. È il momento di coltivare una mentalità digitale nelle giovani donne. Le imprese, dal canto loro, devono attivare politiche inclusive per valorizzare il merito e le competenze distintive delle donne e i WEPs vanno esattamente in questa direzione», spiega la presidente di UN Women Italy Darya Majidi.
Perché la parità di genere può aiutare l’economia
Che la parità di genere possa essere un volàno per l’economia è suffragato da numerose evidenze. Secondo il Fondo monetario internazionale, la riduzione delle disuguaglianze nel mercato del lavoro potrebbe contribuire a una crescita del Pil nelle economie emergenti e in via di sviluppo di quasi l’8%. I benefici derivanti dall’eliminazione totale del divario sarebbero ancora maggiori, con un aumento potenziale del Pil in questi Paesi pari in media al 23%.
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