Per l’Ue il negoziato tariffario si presenta particolarmente difficile in quanto il presidente americano ha aggiunto nel calcolo il peso di quelle che considera barriere non-tariffarie. Per questo l’arma dei dazi mira a ottenere un trattamento privilegiato per le imprese americane, che facilita l’accesso al mercato europeo con margini di competitività non disponibili per le concorrenti europee. L’analisi di Salvatore Zecchini
10/07/2025
Tra gli strumenti di politica industriale il presidente Trump ha mostrato grande preferenza per il ricorso alle barriere tariffarie negli scambi internazionali rispetto all’impiego di altre leve. Come principale motivo ha addotto l’obiettivo di erigere un consistente muro protettivo per far rinascere il settore manifatturiero, che è stato largamente falcidiato dalla meno che limpida concorrenza dei prodotti asiatici, con quelli cinesi in testa, e da quelli delle altre economie avanzate.
L’imposizione di alte tariffe doganali con l’opzione di aggiungerne altre ancor più penalizzanti gli ha offerto la possibilità di ottenere effetti immediati di freno alle importazioni e al tempo stesso di prevenire pari misure di ritorsione dai paesi colpiti, sfruttando l’importanza del ricco ed immenso mercato americano per le loro esportazioni. Un effetto secondario, sebbene importante, per la strategia di Trump è il gettito fiscale derivante dalle tariffe riscosse, che sin dal primo mese di applicazione è raddoppiato, e secondo il Cbo in un decennio potrebbe alleviare il deficit federale di ben 2,8 trilioni.
Nessun altro strumento gli avrebbe dato questi risultati, se si esclude il blocco totale dell’interscambio come nei casi di esigenze sanitarie o di conflitto. Neanche il deprezzamento del dollaro, che da inizio d’anno ha superato il 10%, avrebbe potuto offrire tanto, considerata la variabilità degli andamenti monetari. L’ombrello protezionistico è stato applicato con intensità differente a seconda dei paesi e dei comparti merceologici. Per l’acciaio, l’alluminio e l’automotive la barriera del 25% elevabile al 50% risulta molto impervia per i produttori europei, ma probabilmente abbordabile per quelli cinesi. La protezione tariffaria è impiegata altresì avverso le importazioni agroalimentari, benché la concorrenza su questi mercati si fondi tanto sul livello dei prezzi delle commodities, peraltro determinati sui mercati mondiali, quanto su altre caratteristiche.
Laddove l’arma dei dazi non è adatta, il presidente americano è ricorso ad altre forme di pressione che coinvolgono la tassazione, come nel campo dei servizi finanziari e in quelli digitali. Per questi ultimi ha ottenuto di esentare le compagnie americane dal sottostare alla digital tax, che è già applicata da alcuni paesi, compresa l’Italia. Anche sulla minimum tax sulle multinazionali ha rotto l’accordo internazionale raggiunto dopo lunghi negoziati in sede Ocse.
I dazi e le barriere tariffarie alterano le condizioni della concorrenza tra le imprese protette e quelle estere anche nel caso in cui l’aggravio di prezzo sia traslato interamente o parzialmente sull’importatore americano. Chi esporta nel mercato americano dovrà fronteggiare una concorrenza sbilanciata a favore delle imprese americane e dovrà affrontare la stessa condizione nel loro confronto sui mercati dei paesi terzi. Non sono soltanto i nuovi dazi a rilevare perché altre misure introdotte dalla nuova amministrazione pongono, in particolare, i produttori europei in posizione di svantaggio nel competere con gli americani.
La nuova legge per il bilancio federale del prossimo esercizio, che inizia ad ottobre, concede notevoli sgravi fiscali alle imprese, comprese le PMI, crediti fiscali per investimenti e riduzione delle imposte sul reddito delle società. Nel contempo ha congelato i finanziamenti per le misure ambientali previste dall’Inflation Reduction Act e rimosso molte delle restrizioni per la decarbonizzazione dei processi produttivi e i sussidi per la mobilità elettrica e per le energie rinnovabili.
In particolare, con la legge di bilancio sono resi permanenti la deduzione del 20% del reddito e i tagli delle aliquote marginali per la tassazione delle PMI, innalzato a 2,5 milioni il limite di ammortamento nel primo anno degli impianti acquistati, aumentato a 15-30 milioni l’esenzione fiscale dell’imposta immobiliare. È anche consentito l’ammortamento al primo anno delle spese per la Ricerca e Sviluppo. Per le corporations ha abbassato in maniera permanente l’imposta sui profitti dal massimo del 35% al 21% che si applica linearmente. Ha reso conveniente fiscalmente il rimpatrio dei profitti delle società detenuti all’estero. Ha raddoppiato la deduzione delle imposte corrisposte a livello locale dal calcolo dell’imposta federale. Inoltre, ha favorito i commercianti al dettaglio a spese del commercio online eliminando i sussidi pubblici alle spedizioni. Di contro, ha programmato la tassazione delle dotazioni patrimoniali delle grandi università private e il taglio dei finanziamenti federali ai loro programmi di ricerca.
Oltre alla retromarcia sugli aiuti all’energia pulita, ha attuato altri interventi di politica industriale, come nel caso della vendita alla Nippon Steel della famosa acciaieria US Steel quasi in stato fallimentare. Come contropartita dell’autorizzazione alla vendita ha ottenuto l’applicazione di una molto invasiva Golden Share che prevede il coinvolgimento di funzionari pubblici nelle decisioni del nuovo Board.
Per l’Ue il negoziato tariffario si presenta particolarmente difficile in quanto il presidente americano ha aggiunto nel calcolo il peso di quelle che considera barriere non-tariffarie. Il riferimento va all’applicazione dell’Iva anche sulle importazioni, le regolamentazioni per i prodotti agroalimentari, specialmente le carni, le procedure per la verifica del rispetto delle norme comunitarie sui prodotti d’origine esterna e le lunghezze burocratiche delle pratiche doganali e autorizzative. In essenza, con l’arma dei dazi mira a ottenere un trattamento privilegiato per le imprese americane, che facilita l’accesso al mercato europeo con margini di competitività non disponibili per le concorrenti europee.
La sfida americana alle politiche europee va, pertanto, oltre quella del protezionismo tariffario perché investe l’equa concorrenza sui mercati interni ed esterni, la decarbonizzazione dell’economia, l’attrazione degli investitori esteri, il rendimento comparativo dell’investimento dei capitali, la concentrazione industriale e la regolazione prudenziale del sistema bancario. In essenza per le imprese europee sarà più difficile competere con quelle americane rispettando i vincoli posti dalle sue attuali normative.
Ad esempio, le case automobilistiche sarebbero spiazzate dall’ingresso di vetture americane che non rispettano gli stessi standard ambientali. Per i capitali europei diverrebbe ancor più conveniente essere investiti oltreoceano per spuntare maggiori profitti e minore tassazione, piuttosto che attendere l’attuazione della proposta di una Unione dei risparmi e degli investimenti. I colossi americani del digitale continuerebbero ad avere una posizione dominante in Europa e a godere di una tassazione più favorevole, mentre avrebbe minori probabilità di successo una strategia diretta a far emergere uno o più colossi europei in concorrenza con gli americani.
La politica europea sulle fusioni ed acquisizioni dovrebbe confrontarsi più che nel recente passato col nuovo atteggiamento antitrust della Federal Trade Commission in un’ottica di mercati che superano i confini nazionali. Se dalle prime dichiarazioni della nuova Ftc sembra che continueranno le indagini sul potere di mercato dei colossi del digitale e delle grandi corporations, e manterranno, almeno inizialmente, le Direttive sulle Fusioni della precedente gestione, il protezionismo del Presidente, tuttavia, li ha ancora tutelati dal fisco europeo. Un condizionamento sulla politica europea per rafforzare la stabilità del sistema bancario si è, invece, realizzato per la resistenza della nuova amministrazione ad applicare l’accordo “Basilea 3 plus” sulla capitalizzazione delle banche e il monitoraggio dei rischi. In mancanza dell’attuazione da parte americana, gli europei hanno dovuto rinviare l’entrata in vigore dell’accordo, per non pregiudicare la competitività delle loro banche.
Per l’Ue il rapporto tra equa concorrenza e le misure prese dalla maggiore potenza economica risulta più problematico che con la precedente amministrazione americana. Come conciliare la specificità del modello economico-sociale dell’Europa con il nazionalismo e protezionismo del maggiore partner? Su alcuni punti del negoziato commerciale in corso l’UE deve resistere per salvaguardare le proprie priorità in campo ambientale e di avanzamento nelle più moderne applicazioni digitali, facendo attenzione a non intralciare il progresso tecnologico con regole toppo stringenti. Si tenderebbe quindi ad applicare un doppio regime, uno valido all’interno e salvaguardato da barriere alla concorrenza esterna, e un altro che permetta alle imprese di competere all’esterno ad armi pari con paesi che non applicano analoghe regolamentazioni. A esempio, a tutela degli obiettivi ambientali dell’Ue sarebbe urgente dare applicazione alla Carbon Border Allowance (carbon tax) selettivamente per parificare la concorrenza con le imprese estere.
Sul livello dei dazi con gli Usa si dovrebbe insistere sulla parità o equivalenza delle tariffe dai due lati dell’Atlantico, nonché far valere l’avanzo che gli Usa hanno nello scambio di servizi. Un dazio al 10% con rare eccezioni al rialzo su alcuni prodotti non sarebbe così traumatico come appare alle organizzazioni imprenditoriali, se considerato come alternativa a penalizzazioni ben più alte, come minacciato da Trump. Naturalmente comporterà per gli europei perdite di quote di mercato, di posti di lavoro e di margini di utile. Questo effetto sarebbe mitigato nel caso dei prodotti di qualità per i quali la domanda americana si è dimostrata poco elastica ai rincari. Sulle barriere non tariffarie i margini di negoziato sarebbero, invece, molto ristretti perché incidono su aspetti strutturali e su valori su cui è stata costruita l’Unione.
Non va nemmeno sottaciuto un aspetto positivo delle nuove barriere tariffarie e degli incentivi fiscali introdotti da Trump. Potrebbero rivelarsi come un utile pungolo perché l’Ue riesamini il peso delle sue regolamentazioni e divisioni sullo sviluppo dell’area. Sarebbe uno stimolo a concludere riforme di cui si è parlato molto anche negli ultimi rapporti ufficiali sulla competitività, ma che sono rimaste finora sulla carta.
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