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Trump e l’eterogenesi dei fini


1. Il limite del capitale alla fine del fordismo: eludere le nuove istanze strutturali

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Con la progressiva saturazione del mercato dei beni di consumo di massa standardizzati e il tramonto del fordismo, erano emerse nuove istanze

  Cresceva la necessità di soddisfare una domanda dettata da bisogni sempre meno di origine naturale (fisiologica e biologica) e sempre più di origine sociale e culturale. Ne conseguiva la necessità di un’offerta che, in virtù di uno stretto e costante contatto con la domanda, fosse più personalizzata o, comunque, più appropriata, in cui a prevalere fosse tendenzialmente il valore d’uso sul valore di scambio. Le piccole e medie imprese, date le loro caratteristiche strutturali e la predisposizione ontologica dei loro conduttori e delle loro maestranze a fare un buon prodotto, avrebbero potuto essere le più idonee a realizzarne la parte più importante e ad acquisire ruolo di protagoniste nel processo di produzione.

  Si può ritenere che, in alternativa alla storica tendenza alla centralizzazione e alla concentrazione, si stesse manifestando l’esigenza di una tendenza esattamente opposta, ovvero una tendenza alla decentralizzazione e alla deconcentrazione.

  Le multinazionali, condizionate dalla logica del profitto, hanno eluso il problema sostituendo al modo di sviluppo fordista il modo di sviluppo della globalizzazione[1]: da un lato, hanno continuato a perseguire una sempre più forte centralizzazione dei capitali e, da un altro lato, hanno attuato, come decentralizzazione, una delocalizzazione di gran parte delle fasi di processo delle proprie filiere produttive nei Paesi periferici, con lo scopo, anzitutto, di pagare i salari più bassi e di avere un’organizzazione gestionale la più flessibile, a livello mondiale.

  Sicché, operando entro filiere lunghe, transnazionali, si sono precluse la possibilità di avere contatti diretti intra-interaziendali e, quindi, di realizzare, quando occorresse, una personalizzazione che tenesse sufficientemente conto della specificità dei bisogni dei clienti. Si sono autolimitate a realizzare una personalizzazione ex ante, cioè predefinita, a catalogo, in cui l’interesse dominante, di fatto, è stato il business.

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  Al contrario le piccole e medie imprese, in particolare quelle operanti nei distretti industriali, si sono date spontaneamente un’organizzazione opposta a quella degli oligopoli e hanno offerto una personalizzazione realizzata a contatto con le problematiche dei clienti, cioè una personalizzazione ex post: da un lato, hanno mantenuto piena autonomia e modeste dimensioni; da un altro lato, hanno autocontenuto le reciproche relazioni entro circoscritti ambiti territoriali, conseguendo un’integrazione interaziendale molto flessibile ma anche, soprattutto, dialettica, spesso faccia a faccia[2].

  Tuttavia, a causa delle loro limitate dimensioni, non hanno potuto dotarsi di funzioni aziendali strategiche, indivisibili e non delegabili. Sono rimaste un’anomalia del capitalismo, producendo solo per la conquista di nicchie di mercato, sia pure, spesso, di qualità.

  L’esito di tale situazione è stata una generale stagnazione dell’economia mondiale, entro cui la rivalità interimperialistica tra maggiori potenze si è sempre più inasprita fino alla guerra guerreggiata.

2. Gli Usa e gli alleati della Nato hanno aggredito la Russia e non viceversa

All’indomani della dissoluzione dell’Unione Sovietica, gli Stati Uniti constatarono di avere vinto definitivamente la guerra fredda.

  L’oligarchia globalista americana aveva ormai acquisito un potere sulla politica che mai aveva avuto precedentemente. Chiese al governo che fosse estesa ovunque la globalizzazione e la dottrina neoliberista.

  Con Clinton, puntò ad allargare il controllo della Nato sui territori dell’Europa Orientale, mentre, successivamente, con Bush jr, si preoccupò di consolidare il controllo sui territori del Medio Oriente e dell’Asia Meridionale. Vi riuscì mediante la creazione di guerre nei Balcani, in Afganistan e in Iraq, legittimando la propria azione con l’alibi di esportare in quei luoghi la democrazia.

  Al termine della presidenza Bush jr, però, ci si rese conto che la situazione era sfuggita di mano: mentre gli Usa facevano guerre preventive a garanzia della propria egemonia, stavano emergendo, come temibili rivali, due nuove potenze: la Russia di Putin e, soprattutto, la Cina.

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  Il processo di delocalizzazione aveva arricchito le multinazionali, ma aveva anche rafforzato i Paesi periferici più attivi, i quali erano riusciti ad avviare una forte crescita industriale grazie all’esportazione di prodotti low cost, causando una progressiva crisi nelle strutture produttive dei Paesi industrializzati, primi fra tutti gli Stati Uniti.

  Il deficit commerciale americano era iniziato nei primi anni Settanta con la rinata concorrenza dei Paesi sconfitti nell’ultima guerra mondiale, in particolare Germania e Giappone. Da allora, il saldo negativo continuò a crescere, con una forte accelerazione durante l’amministrazione Clinton, mentre le spese in armamenti a sostegno dell’egemonia mondiale apparivano sempre meno sostenibili.

  L’oligarchia globalista americana, quando Obama giunse alla Casa Bianca, ritenne che fosse giunto il momento di riconsiderare la propria strategia di dominio.

  Decise che la sua azione avesse un salto di qualità: occorreva annientare le due potenze rivali emergenti, attaccando prima la Russia e poi, isolata, la Cina. Avrebbe mirato a provocare in quei Paesi un cambio di regime e, se fosse stato possibile, uno smembramento (come era già avvenuto nel caso della Jugoslavia).

  Le enormi spese militari sarebbero state contenute, sia pure solo in parte, ricorrendo a guerre per procura.

3. Le guerre per procura nelle aree dell’Europa Orientale, del Nord Africa e del Medio Oriente

L’amministrazione Obama agì simultaneamente su due fronti, sia su quello nordorientale, ossia l’Europa dell’Est, sia su quello sudorientale, ossia il Nord Africa e il Medio Oriente, facendo una tacita alleanza, sul primo fronte, con i neonazisti e, sul secondo fronte, con i jihadisti[3].

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  Creò un’organizzazione specializzata a dar vita nei Paesi del nordest, alle “rivoluzioni colorate” e, nei Paesi del sudest, alle “rivoluzioni arabe”, grazie alle quali fosse consentito alle forze neonaziste e alle forze jihadiste di impadronirsi dei governi locali e iniziare una politica più congruente agli interessi degli Usa e degli altri Paesi occidentali, assicurando alle loro multinazionali più ampi mercati e un più forte controllo su materie prime strategiche[4].

  In Ucraina, nel 2014, organizzò con le forze neonaziste il colpo di Stato a Kiev[5] e sostenne un nuovo governo di estrema destra, che abolì i partiti di sinistra, discriminò in ogni modo i russofoni e aggredì con milizie neonaziste le popolazioni del Donbass e le popolazioni della Crimea, le quali furono obbligate a reclamare rispettivamente l’autonomia federale e l’annessione alla Russia.

  In Medio Oriente e in Nord Africa, diede origine a numerose guerre. Ma l’esito risultò favorevole non tanto alle forze jihadiste quanto alle forze laiche, anche se, spesso, illiberali. Oppure, per l’equilibrio delle forze militari in gioco, fu senza né vincitori né vinti, dando luogo a un’impasse o al caos.

  Putin sollecitò vanamente per otto anni i Paesi occidentali a far valere gli accordi di Minsk[6] e a por fine a qualsiasi presenza militare ai confini della Russia. Ignorato, si sentì di fatto con le spalle al muro. Dopo aver inutilmente ribadito per un’ultima volta la sua richiesta, diede avvio all’invasione dell’Ucraina.

  Era un conflitto armato che l’oligarchia globalista americana, assecondata da quella dell’Unione Europea, aveva provocato coscientemente, sperando di sconfiggere la Russia e imporvi il cambio di regime desiderato.

  Oggi Putin ha pressoché vinto la guerra e accetterebbe la pace a un’unica condizione: quella posta prima dell’invasione dell’Ucraina, più, ovviamente, il mantenimento dei territori nel frattempo conquistati sul campo.

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  Insomma, Putin non avrebbe alcun motivo per volere la conquista dell’Europa.

  La Russia è il Paese che ha la maggiore estensione territoriale e i maggiori giacimenti delle più importanti materie prime, mentre la sua popolazione ha un’entità relativamente modesta e i confini da presidiare, in particolare quello con la Cina, sono lunghissimi. D’altro canto, nella storia, non ha mai aggredito i Paesi europei, ma al contrario, è stata da loro più volte aggredita.

4. Una spaccatura epocale all’interno dell’oligarchia americana

Trump, già al suo primo mandato presidenziale, si era fatto interprete di una parte dell’oligarchia americana, la quale non riteneva più condivisibile la strategia delle amministrazioni globaliste di Clinton, Bush jr e Obama.

  Da un lato, i costi delle guerre apparivano ormai enormi e, da un altro lato, le importazioni di beni, soprattutto ordinari, diminuite con la Grande Recessione del 2008, avevano ripreso a crescere dopo pochi anni e, così pure, gli investimenti diretti all’estero, soprattutto in Cina. Il dollaro, in quanto moneta di scambio internazionale, appariva sempre meno affidabile. Per contro, la Russia e, soprattutto, la Cina continuavano a rafforzarsi economicamente e militarmente.

  Trump, insieme alla parte di oligarchia dissidente, si convinse che urgesse sostituire la strategia globalista con una strategia nazionalista, realizzata con una politica protezionista[7].

  Ha avviato il cambiamento sfruttando elettoralmente un crescente consenso in diversi strati della società statunitense che, con la fine del fordismo e le importazioni dalla Cina e dagli altri Paesi emergenti, si erano impoveriti diventando parte del ceto medio basso.

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  Però, Trump, con tale scelta nazionalista (“America First”), non può essere considerato un isolazionista[8].

  Se fosse vero, occorrerebbe dedurne che la globalizzazione sarebbe in via di superamento.

  Ma questo modo di sviluppo non deve essere inteso erroneamente. Cioè, non è identificabile solo con il superamento delle frontiere e la liquidazione degli Stati nazionali a favore del mercato. Deve essere interpretato strutturalmente. Come si è già detto, è un’organizzazione produttiva che le multinazionali hanno adottato costatando il superamento storico del modo di sviluppo fordista. E poiché, per ora, non sembra che le multinazionali abbiano intravisto un altro modo di sviluppo in grado di garantire loro profitti e potere superiori, si può attendibilmente sostenere che il crescente conflitto interimperialistico non ne stia determinando la fine.

  In realtà, Trump ha avuto fin dall’inizio l’idea di potenziare l’industria nazionale mediante il protezionismo, con l’obiettivo, strategico, di ridurre l’enorme deficit commerciale americano, la cui crescita era potuta avvenire importando merci da tutto il mondo stampando dollari, nella convinzione che il sistema si sarebbe retto grazie alla potenza militare e finanziaria del Paese.

  Lo scontro interimperialistico, pertanto, non sta ponendo fine alla globalizzazione ma sta avvenendo dentro la globalizzazione, trasformando il mercato in un vero e proprio campo di battaglia per la supremazia mondiale[9].

5. Trump e l’accelerazione verso un nuovo ordine mondiale multipolare

Trump sta conducendo indubbiamente una strategia rischiosa. Non si può escludere che fallisca e che l’oligarchia globalista ritorni al potere continuando la strategia guerrafondaia nel conflitto interimperialistico, fino alla resa dei conti finali con il fronte della Cina, della Russia e dei loro alleati.

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  Il suo successo dipenderà dal grado di ragionevolezza politica in cui avverranno le negoziazioni sui dazi e su altri vincoli commerciali (soprattutto nell’ambito militare ed energetico), a favore di un quadro degli scambi internazionali meno squilibrato.

  Se fosse così, la strategia di Trump, per eterogenesi dei fini, risulterebbe di fatto molto importante rispetto alla costruzione di un’alternativa al capitalismo. Imprimerebbe una brusca accelerazione al cambiamento geopolitico emergente: il ritorno ad un ordine mondiale multipolare, con la possibilità di una nuova prospettiva socialista.

  A breve termine, si verificherebbe un inevitabile rallentamento dell’economia globale, con un incremento di tensioni e conflitti tra Stati e, al loro interno, di contraddizioni sociali[10]. E però, a medio e lungo termine, ogni Paese potrebbe avere bacini produttivi meno frammentati, mercati domestici più ampi e salari meno bassi di quanto il neoliberismo aveva causato, acquisendo maggiori possibilità di non subire impotente la logica del libero mercato e di scegliere più liberamente una propria collocazione geopolitica.

  Le forze di sinistra, grazie alla fluidità di questa nuova situazione mondiale e la possibilità di una ricrescita del peso politico della classe lavoratrice, si troverebbero ad agire in condizioni avvantaggiate per innescare nei propri Paesi due processi strategici, tanto irrinunciabili quanto indivisibili: lo sganciamento dalla globalizzazione, ovvero linee di sviluppo fuori dalla logica del profitto, e, nello stesso tempo, la territorializzazione, ovvero un’integrazione tendenzialmente paritaria e complementare con i Paesi limitrofi, originando ambiti regionali autocentrati,in grado di avere una propria autonoma forza politica nello scacchiere internazionale[11].

6. L’impotenza dell’Unione Europea è intrinseca alla sua originaria natura neoliberista

L’Unione Europea, scoppiata la guerra in Ucraina, ha condiviso pienamente la strategia guerrafondaia dell’oligarchia globalista americana, benché tale scelta comportasse danni economici estremamente gravi per la sua economia, primo fra tutti un forte incremento del costo dell’energia, causando al proprio interno l’inizio di un ineluttabile processo di deindustrializzazione, a cominciare dal Paese economicamente più forte, la Germania.

  La sua situazione è divenuta ancora più critica con la sconfitta dell’oligarchia globalista e la vittoria di Trump.

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  Bruxelles sta reagendo alla nuova strategia americana con una politica insostenibile, autolesionistica e, per giunta, non condivisa in toto da tutti i Paesi europei.

  In attesa di definire una chiara linea di negoziazione con Trump rispetto alla sua richiesta di un molto maggiore contributo alle spese militari della Nato (pari al 5% del pil) e di un maggior acquisto di gas liquido statunitense, sembra comunque determinata a finanziare un piano di riarmo contro la Russia di 800 miliardi di euro mediante il risparmio finanziario delle famiglie europee, contrastando i tentativi americani di porre fine alla guerra in Ucraina. Peraltro, senza alcuna possibilità di uguagliare in tempi ragionevoli la potenza delle armi nucleari della Russia.

  Quanto ai nuovi dazi americani, ha reagito preparando altrettanti dazi (benché alcuni Paesi fossero stati tentati di trattare singolarmente), con l’intento di giungere a una trattativa il cui esito avrebbe dovuto essere zero dazi per entrambe le parti contendenti.

  Ma Trump, ovviamente, ha respinto tale proposta. La Commissione Europea sembra non aver capito che egli non vuole una deregolamentazione totale degli scambi quanto l’esatto opposto, cioè una loro negoziazione mirata, politica.

  Insomma, l’oligarchia globalista europea, in nome della democrazia liberale, del welfare e dei diritti civili e sociali, è intenzionata a continuare la strategia guerrafondaia della sconfitta oligarchia globalista americana, ma mostra di non essere in grado di farlo con cognizione di causa.

  Questa situazione sembrerebbe essere dovuta a insipienza delle cancellerie europee. In realtà, trae origine da un fatto strutturale: aver fondato l’Unione Europea sulla moneta unica e non su un’idea di società.

  Né poteva essere diversamente. Le oligarchie globaliste di ciascun Paese europeo, infatti, hanno scontato una cruciale contraddizione che è insita nella scelta di un modo di sviluppo quale è la globalizzazione: le multinazionali, da un lato, hanno delocalizzato nei Paesi periferici gran parte delle loro fasi produttive; da un altro lato, hanno mantenuto i loro quartieri generali nei propri Paesi, in cui hanno radici storiche e si avvalgono dell’appoggio dei rispettivi governi. In altre parole, le multinazionali, nonostante operino sul mercato globale, non sono cosmopolite ma sono nazionali.

  Perciò, l’Unione Europea non ha mai avuto una propria soggettività politica e, quindi, non è stata mai capace di darsi un proprio autonomo sviluppo[12] e una propria autonoma politica estera.

  Fino a quando ha potuto agire entro un’economia mondiale dominata dal neoliberismo, in cui valeva il principio del “lasciar fare ai mercati”, ha galleggiato, assicurando stabilità monetaria agli oligopoli nazionali fra loro in competizione, sia pur sempre sotto il condizionamento americano. Ma oggi, con una globalizzazione limitata dal protezionismo e dalla negoziazione, ovvero in cui è diventata d’obbligo un’intromissione politica nel libero gioco delle forze di mercato, scopre di essere del tutto impotente e cerca, come via di scampo, di ostacolare la politica intrapresa da Trump continuando la guerra contro la Russia e militarizzando l’economia dei propri Stati[13]. Spera che Trump fallisca e che a Washington torni al governo l’oligarchia globalista. Si illude che sia ancora possibile sconfiggere la Russia e, una volta annientata, mirare al cambio di regime in Cina, ripristinando un ordine mondiale unipolare e la globalizzazione del libero scambio.

  Concludendo, sembra essere ineluttabilmente destinata allo scioglimento oppure a diventare il fanalino di coda di un continente euroasiatico, il cui centro sarà la Russia e la Cina.

7. L’Italia e una nuova area mediterranea

L’Italia, ormai da oltre un trentennio, è soggetta a un lento ma progressivo declino.

  Eppure, fino allo scoppio delle guerre in Ucraina, Medio Oriente e Nord Africa, aveva ancora davanti a sé una grande speranza di sviluppo.

  Facendo leva sulla centralità del Mezzogiorno nel Mediterraneo, sul ruolo esclusivo di Taranto, Gioia Tauro e Crotone nei flussi di traffico tra Oriente e Occidente e su una personalizzazione ex post offerta dalle sue piccole medie imprese[14], sarebbe stata in grado di avviare, insieme ai Paesi europei che fossero d’accordo, un ampio processo di allargamento dei propri scambi commerciali e culturali con i Paesi dell’Africa e del Medio Oriente. E nel farlo avrebbe avuto la possibilità di puntare su due settori strategici: la Meccanica strumentale, per la già detenuta leadership mondiale nell’ambito della personalizzazione ex post, e i Trasporti, per la posizione baricentrica occupata nel Mediterraneo.

  Si sarebbe creata una nuova area economica fondata su una condivisa ipotesi di sviluppo, con relazioni paritarie e complementari, a cominciare dallo scambio di materie prime con macchinari e impianti industriali ad hoc, contro la politica di rapina che gli oligopoli hanno sempre perpetrato nei confronti del Sud.

  Però, sarebbe stato necessario sostenere le piccole e medie imprese nell’acquisizione di un’adeguata soglia dimensionale, permettendo loro di assumere il ruolo di protagoniste che avrebbero dovuto avere. Cioè, sarebbe stato necessario aiutarle ad aggregarsi per piccoli gruppi aziendali, in cui ciascuna, pur mantenendo la propria autonomia e la propria identità, condividesse con le altre imprese quelle funzioni strategiche che, singolarmente, per l’elevato costo, non sarebbe mai riuscita a darsi[15].

  L’Italia, facendo leva su questa prospettiva, avrebbe potuto trattare con Bruxelles un incremento del suo debito per finanziarla, con un rientro sì a lungo termine, ma sicuro, mobilitando il rilevante risparmio finanziario delle famiglie italiane, che aveva raggiunto in quel momento la soglia di circa 4mila miliardi di euro. Il governo, anziché lasciare che le banche private continuassero a indirizzarlo sul mercato finanziario internazionale, non avrebbe dovuto far altro che catturarne una parte sufficiente a liberarci dal ricatto dei grandi operatori finanziari, emettendo, tramite il Tesoro, titoli esclusivamente dedicati ai piccoli e medi risparmiatori italiani ed offrendo tassi d’interesse moderati, ma fuori dalla speculazione borsistica[16].

  Però, oggi, con il proseguire delle guerre e l’acuirsi del conflitto interimperialistico, il nostro Paese sta perdendo anche questa ultima chance di sviluppo.

  È presumibile che, se si adeguasse alla scelta di Bruxelles, ovvero quella di proseguire la strategia dell’oligarchia globalista americana, sarebbe costretta a condividere con gli altri Paesi dell’Unione una negoziazione con Trump più aspra di quanto potrebbe esserlo, sia per le spese militari sia per il gas liquido sia per i dazi.

  Le piccole e medie imprese della personalizzazione ex post, unico punto di forza della struttura produttiva nazionale (oltre a poche grandi imprese pubbliche quali Eni, Leonardo, Enel e Fincantieri), rischierebbero di perdere importanti mercati. Quelle di loro meno attrezzate e con prodotti a minore valore aggiunto, già penalizzate da un cronico sottodimensionamento, potrebbero non essere più in grado di soddisfare le specifiche esigenze dei clienti in modo economicamente sostenibile, cioè in cui, per l’incremento del prezzo, il plus di valore aggiunto dovuto alla personalizzazione non sarebbe più giustificato rispetto alla funzione richiesta dalla clientela.

8) Una decisione obbligata

All’Italia, dunque, non resterebbe altra possibilità se non quella di proporre la trasformazione dell’Unione Europea in Confederazione Europea, oppure, se non trovasse consenso, di uscire dall’Unione.

  Tale decisione sarebbe obbligata perché, con il piano di riarmo europeo, ci verrebbe meno proprio quel risparmio finanziario delle famiglie italiane, oggi salito a circa 5,7mila miliardi di euro, che è la condizione essenziale per tentare comunque di realizzare lo sviluppo ipotizzato senza esporci al ricatto della finanza internazionale.

  L’Italia, insieme ai Paesi europei che fossero d’accordo con la sua decisione, avrebbe allora il vantaggio di fronteggiare in termini politici non ostili le richieste di Trump.

  Al presidente degli Stati Uniti si potrebbe proporre un rapporto di cooperazione senza alcuna forma di subalternità[17], inducendolo a considerare la possibilità di un radicale ribaltamento d’ottica: gli Stati Uniti potrebbero contrarre l’enorme deficit commerciale non soltanto con una riduzione delle importazioni quanto anche con una crescita delle esportazioni, garantita proprio dalla nuova grande espansione che si innescherebbe nel Mediterraneo.

  Il risultato non sarebbe a somma zero, ma un beneficio per entrambe le controparti. E non solo dal punto di vista economico, ma anche dal punto di vista geopolitico.

  Per gli Usa, vi sarebbe la possibilità di contrastare la progressiva penetrazione in Africa della Cina e, in parte, della stessa Russia.

  Per l’Italia, vi sarebbe la possibilità di ottenere in Nord Africa una situazione politica più favorevole al voluto allargamento delle relazioni produttive, cominciando da una soluzione del conflitto tra i due attuali governi della Libia, quello di Tripoli e quello di Tobruch.

  L’oligarchia globalista americana, affiancata da quella europea e con la copertura istituzionale dell’Onu, aveva riconosciuto come legittimo il governo usurpatore jihadista formatosi a Tripoli dopo l’uccisione di Gheddafi e lo aveva sostenuto con le armi. Trump potrebbe porre fine a tale situazione ereditata e consentire, come ha sempre richiesto il governo di Tobruch, difeso da Haftar, che fosse possibile svolgere libere elezioni e formare un unico e democratico governo, con la restituzione del controllo sulle risorse nazionali (in primis gas e petrolio) alla popolazione libica[18].


[1] Si è inteso per modo di sviluppo l’organizzazione tecnico-economica del processo di produzione, mentre per modo di produzione i rapporti di produzione entro cui avviene il modo di sviluppo e i suoi possibili cambiamenti nel corso del tempo.

[2] Si veda: Becattini G., 2000, Dal distretto industriale allo sviluppo locale. Svolgimento e difesa di un’idea, Bollati Boringhieri, Torino; Becattini G., 2015, La coscienza dei luoghi. Il territorio come soggetto corale, Donzelli, Roma.

[3] Si veda: Hoff B., 2015, “Selon un documement de la Dia l’Occident misait sur l’Ètat islamique pour déstabiliser la Syrie”, Arrêt sur Info, 22 maggio; Nafeez A., 2015, “Pentagon Report Predicted West’s Support for Islamist Rebels Would Create Isia”, Insurge intelligence, 22 maggio; Sensini P., 2016, Isis, Mandanti, registi, e attori del “terrorismo” internazionale, Arianna Editrice, Bologna; Fracassi F., 2016, Isis. La storia non autorizzata, Wip Edizioni, Bari; Sensini P., 2017, Libia. Da colonia italiana a colonia globale, Jaca Book, Milano.

[4] Si veda: Fracassi F., Pietropaoli G., 2013, La fabbrica delle rivoluzioni, Documento Film, www.movieplayer.it; Fracassi F., 2020, La fabbrica delle rivoluzioni colorate, www.byoblu.com.

[5] Si veda Fracassi F., 2022, Ucraina. Dal Donbass a Maidan. Cronache di una guerra annunciata, Franco Fracassi, Roma.

[6] Neutralità dell’Ucraina, autonomia federale per il Donbass, annessione alla Russia per la Crimea.

[7] Si veda Canesi M., 2024, Oltre Marx con Marx. I limiti del capitale e l’egemonia di una nuova classe lavoratrice, FrancoAngeli, Milano.

[8] Chi lo ha pensato non ha chiaro che cosa sia il capitalismo – ovvero un modo di produzione fondato sulla concorrenza e il perseguimento di un profitto fine a se stesso, illimitato – e, quindi, non ha chiaro cosa sia l’imperialismo.

[9] Si veda Canesi M., 2024, Oltre Marx con Marx. I limiti del capitale e l’egemonia di una nuova classe lavoratrice, op. cit.

[10] Trump sta cercando di stabilire una certa collaborazione con la Russia nel tentativo di frenare il processo di integrazione che Putin ha avviato con la Cina. Per contro, sta indebolendo l’Unione Europea rendendola un alleato ancora più subalterno di quanto lo era stato nel passato, allo scopo di prevenire il rischio, sempre molto temuto dagli Usa, che formi un’unica grande area economica con la Russia. Si veda Bradanini A., 2025, “Difesa europea e euro-demenza”, La Fionda, 1 aprile (www.la fionda.org).

[11] Si veda Amin S., 2009, La crisi. Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?, Punto Rosso, Milano.

[12] Sviluppo, come diceva Samir Amin, è un concetto ideologico.

[13] Si veda Somma A., 2025, “Verso l’economia di guerra”. La Fionda, 19 aprile.

[14] Si veda Canesi M., 2019, Il Mezzogiorno e i suoi porti. La chiave di una nuova prospettiva di sviluppo, op.cit.

[15] Canesi M., 2012, Le macchine utensili e il made in Italy, FrancoAngeli, Milano.

[16] Si veda Grossi G., 2020, Piano di salvezza nazionale, www.byoblu.com.

[17] Ovviamente, ferma resterebbe la possibilità di ricercare nuove opportunità di mercato nel restante del mondo.

[18] Si veda Severgnini M, 2022, L’urlo. Schiavi in cambio di petrolio, L’AntiDiplomatico, Roma.



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