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Referendum 8 e 9 giugno, i quesiti su lavoro e cittadinanza


L’8 e il 9 giugno 2025 gli italiani saranno chiamati alle urne per esprimersi su cinque referendum abrogativi: quattro riguardano il tema del lavoro e uno la cittadinanza. Trattandosi di referendum abrogativi, gli elettori potranno decidere se eliminare, in tutto o in parte, alcune norme attualmente in vigore. Affinché il risultato sia valido, è necessario che si rechi a votare almeno il 50% degli aventi diritto. I seggi saranno aperti dalle ore 7:00 alle 23:00 nella giornata di domenica e dalle 7:00 alle 15:00 in quella di lunedì.

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Contratto di lavoro a tutele crescenti

Il primo quesito referendario riguarda la disciplina dei licenziamenti introdotta dal Jobs Act nel 2015, in particolare per i lavoratori assunti con contratto a tempo indeterminato a tutele crescenti. Nella scheda, che sarà di colore verde, il quesito sarà il seguente:

Volete voi l’abrogazione del d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23, come modificato dal d.l. 12 luglio 2018, n. 87, convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2018, n. 96, dalla sentenza della Corte costituzionale 26 settembre 2018, n. 194, dalla legge 30 dicembre 2018, n. 145; dal d.lgs. 12 gennaio 2019, n. 14, dal d.l. 8 aprile 2020, n. 23, convertito con modificazioni dalla L. 5 giugno 2020, n. 40; dalla sentenza della Corte costituzionale 24 giugno 2020, n. 150; dal d.l. 24 agosto 2021, n. 118, convertito con modificazioni dalla L. 21 ottobre 2021, n. 147; dal d.l. 30 aprile 2022, n. 36, convertito con modificazioni dalla L. 29 giugno 2022, n. 79 (in G.U. 29/06/2022, n. 150); dalla sentenza della Corte costituzionale 23 gennaio 2024, n. 22; dalla sentenza della Corte costituzionale del 4 giugno 2024, n. 128, recante “Disposizioni in materia di contratto di lavoro a tempo indeterminato a tutele crescenti, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183” nella sua interezza?

L’obiettivo è eliminare le disposizioni che, per i lavoratori assunti dopo il 7 marzo 2015 nelle aziende con più di 15 dipendenti, non prevedono il reintegro sul posto di lavoro anche in caso di licenziamento dichiarato illegittimo dal giudice. Attualmente, in questi casi è previsto solo un indennizzo economico compreso tra 6 e 36 mensilità. Se il referendum avesse esito positivo, si tornerebbe al sistema previsto prima del Jobs Act, quindi il lavoratore potrebbe ottenere non solo un risarcimento economico ma anche il reintegro nel proprio posto di lavoro.

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Licenziamenti e indennità per le Pmi

Il secondo quesito sul lavoro chiede di eliminare il limite all’indennità per i lavoratori licenziati in modo ingiustificato nelle piccole aziende. La scheda sarà di colore arancione e più precisamente dice:

Volete voi l’abrogazione dell’articolo 8 della legge 15 luglio 1966, n. 604, recante “Norme sui licenziamenti individuali”, come sostituito dall’art. 2, comma 3, della legge 11 maggio 1990, n. 108, limitatamente alle parole: “compreso tra un”, alle parole “ed un massimo di 6” e alle parole “La misura massima della predetta indennità può essere maggiorata fino a 10 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai dieci anni e fino a 14 mensilità per il prestatore di lavoro con anzianità superiore ai venti anni, se dipendenti da datore di lavoro che occupa più di quindici prestatori di lavoro.”?

Il quesito riguarda i lavoratori delle piccole imprese, ovvero quelle con meno di 16 dipendenti. Attualmente, in caso di licenziamento illegittimo, il risarcimento economico è limitato: non può superare le 6 mensilità di stipendio, salvo rare eccezioni per lavoratori molto anziani e aziende di dimensioni maggiori.

Se approvato, verrebbe eliminato il tetto massimo all’indennizzo, consentendo al giudice di determinare l’importo caso per caso, tenendo conto di fattori come la gravità del licenziamento, l’età del lavoratore, le sue condizioni familiari e la situazione economica dell’azienda. In questo modo, le tutele economiche per i lavoratori delle piccole imprese verrebbero potenzialmente rafforzate.

Limiti ai contratti a termine e obbligo di causale

Il terzo si concentra sulla regolamentazione dei contratti a tempo determinato, in particolare sulla possibilità, attualmente concessa ai datori di lavoro, di stipulare contratti senza indicare una causale per i primi 12 mesi. Di colore grigio, sul foglio si vedrà scritto:

Volete voi che sia abrogato il d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81, avente ad oggetto “Disciplina organica dei contratti di lavoro e revisione della normativa in tema di mansioni, a norma dell’articolo 1, comma 7, della legge 10 dicembre 2014, n. 183” limitatamente alle seguenti parti: Articolo 19, comma 1, limitatamente alle parole “non superiore a dodici mesi. Il contratto può avere una durata superiore, ma comunque”, alle parole “in presenza di almeno una delle seguenti condizioni”, alle parole “in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 31 dicembre 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa e produttiva individuate dalle parti;” e alle parole “b-bis)”; comma 1-bis, limitatamente alle parole “di durata superiore a dodici mesi” e alle parole “dalla data di superamento del termine di dodici mesi”; comma 4, limitatamente alle parole “, in caso di rinnovo,” e alle parole “solo quando il termine complessivo eccede i dodici mesi”; Articolo 21, comma 01, limitatamente alle parole “liberamente nei primi dodici mesi e, successivamente,”?

Sebbene il decreto Dignità del 2018 abbia già introdotto alcune restrizioni, la normativa in vigore permette ancora di utilizzare contratti a termine privi di motivazione per il primo anno, con la possibilità di prorogarli o rinnovarli sulla base di causali spesso molto generiche e stabilite direttamente dalle parti.

Il referendum propone di abrogare questa facoltà, rendendo obbligatoria la presenza di una causale sin dal primo giorno di contratto e restringendo la libertà delle parti nel definirla. In caso di approvazione, ogni contratto a termine dovrà essere giustificato da esigenze reali e specifiche, riducendo la flessibilità per le aziende ma rafforzando le garanzie per i lavoratori.

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Responsabilità negli appalti e sicurezza sul lavoro

Il quarto interviene sul tema della sicurezza nei luoghi di lavoro, con particolare attenzione alla responsabilità nei casi di appalti e subappalti. La scheda sarà di colore rosa e la domanda sarà:

Volete voi l’abrogazione dell’art. 26, comma 4, in tema di “Obblighi connessi ai contratti d’appalto o d’opera o di somministrazione”, di cui al decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81, recante “Attuazione dell’articolo 1 della legge 3 agosto 2007, n. 123, in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro” come modificato dall’art. 16 del decreto legislativo 3 agosto 2009, n. 106, dall’art. 32 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito con modifiche dalla legge 9 agosto 2013, n. 98, nonché dall’art. 13 del decreto legge 21 ottobre 2021, n. 146, convertito con modifiche dalla legge 17 dicembre 2021, n. 215, limitatamente alle parole “Le disposizioni del presente comma non si applicano ai danni conseguenza dei rischi specifici propri dell’attività delle imprese appaltatrici o subappaltatrici.”?

Secondo la normativa attuale, il committente è responsabile in solido con l’appaltatore e l’eventuale subappaltatore per i danni subiti dai lavoratori non coperti da Inail o Ipsema. Tuttavia, questa responsabilità è esclusa quando l’infortunio è dovuto a rischi specifici dell’attività svolta dall’appaltatore, limitando così il coinvolgimento del committente.

Il referendum propone di abrogare questa esclusione, estendendo la responsabilità del committente anche ai danni causati da rischi specifici legati all’attività dell’appaltatore o del subappaltatore. In sostanza, si punta a rendere il committente sempre co-responsabile per gli infortuni. Su questo tema Governo e Cgil hanno raggiunto un’intesa per un eventuale modifica della norma, nonostante il referendum.

Cittadinanza italiana dopo 5 anni di residenza legale

L’unico non inerente ai temi del lavoro, il quinto quesito mira a rendere più semplice e veloce l’accesso alla cittadinanza italiana per gli stranieri non appartenenti all’Unione Europea. La scheda sarà gialla.

Volete voi abrogare l’articolo 9, comma 1, lettera b), limitatamente alle parole “adottato da cittadino italiano” e “successivamente alla adozione”; nonché la lettera f), recante la seguente disposizione: “f) allo straniero che risiede legalmente da almeno dieci anni nel territorio della Repubblica.”, della legge 5 febbraio 1992, n. 91, recante “Nuove norme sulla cittadinanza”?

Attualmente, per ottenere la cittadinanza per naturalizzazione è necessario risiedere legalmente e in modo continuativo in Italia per almeno 10 anni. Inoltre, i figli minorenni acquisiscono la cittadinanza solo se formalmente adottati da cittadini italiani. Il quesito propone di abrogare due disposizioni: quella che impone il requisito dei 10 anni di residenza, abbassando a 5, e quella che limita l’automatico riconoscimento della cittadinanza ai soli minori adottati, estendendolo a tutti i figli minorenni dei nuovi cittadini, indipendentemente dalle modalità con cui sono entrati nella famiglia.

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