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ISTAT * RAPPORTO ANNUALE: « IL 23,1% DELLA POPOLAZIONE È A RISCHIO POVERTÀ O ESCLUSIONE SOCIALE (AL SUD 39,8%)/ LE PERSONE SOLE COSTITUISCONO IL 36,2% DELLE FAMIGLIE» (PDF REPORT) (RELAZIONE INTEGRALE PRESIDENTE CHELLI)


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11.01 – mercoledì 21 maggio 2025

(Il testo seguente è tratto integralmente dalla nota stampa inviata all’Agenzia Opinione) –

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Nel 2024 l’economia italiana ha continuato a crescere a un ritmo moderato, inferiore rispetto alla Francia e soprattutto alla Spagna, mentre la Germania è in recessione per il secondo anno di seguito. I primi mesi del 2025 sono stati caratterizzati da forte incertezza sulle prospettive a breve, soprattutto per i rischi circa l’evoluzione degli scambi associati alle decisioni di politica commerciale degli Stati uniti.

L’occupazione ha continuato a espandersi ed è stato conseguito un parziale recupero nel potere d’acquisto dei salari. D’altra parte, l’aumento dell’occupazione, anche per la sua composizione settoriale, si è tradotto in una riduzione della produttività del lavoro.
È proseguito il rientro dall’inflazione, riflettendo il forte calo nelle quotazioni dell’energia, la cui crescita ne era stata all’origine. L’inflazione al consumo si è mantenuta più bassa che nelle altre maggiori economie europee, tornando però a salire nei primi mesi del 2025.

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Nell’anno appena trascorso sono migliorati in misura consistente i saldi del bilancio pubblico, soprattutto grazie alla riduzione degli oneri del superbonus. Il debito pubblico è cresciuto lievemente, per effetto della ridotta crescita del Pil nominale e dell’aumento della spesa per interessi.

Nell’ultimo decennio la crescita dell’economia ha risentito sia di condizioni macroeconomiche in prevalenza sfavorevoli, sia di caratteristiche del sistema produttivo associate all’efficienza e all’incremento della produttività che ne hanno frenato l’espansione, quali le ridotte dimensioni d’impresa, la specializzazione, il contenuto innovativo relativamente modesto delle produzioni.
Negli anni più recenti lo sviluppo delle attività ad alta tecnologia ha contribuito a mitigare questi effetti. Tuttavia, l’Italia continua a scontare un ritardo nella dotazione di capitale umano qualificato, che si riflette anche in una minor capacità di adozione delle tecnologie digitali che richiedono competenze specializzate.

Considerando la dimensione della sostenibilità, tra il 2005 e il 2024 è triplicata la produzione di energia da fonti rinnovabili: in quest’ambito l’Italia resta indietro rispetto alle altre maggiori economie europee, anche se negli ultimi anni si è avuta un’accelerazione. Parallelamente, si sono ridotte le pressioni generate dal sistema economico sull’ambiente. Permangono tuttavia elevati i rischi naturali, associati anche alla maggior frequenza di eventi climatici estremi.

 

 

DISCORSO PRESIDENTE ISTAT Francesco Maria Chelli

RAPPORTO ANNUALE ISTAT 2025

Sintesi – Versione per la lettura,

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Presidente/Onorevole, che ringrazio per l’indirizzo di saluto,

Signori Ministri

Rappresentanti del Governo,

Autorità tutte,

Signore e Signori,

ogni anno il Rapporto dell’Istat si propone di raccontare i progressi e le criticità che hanno caratterizzato il nostro Paese,

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e lo fa con il suo solito – e solido – bagaglio di fonti e di dati, che negli anni si sono evoluti sul piano della quantità e della qualità.

In questa trentatreesima edizione, abbiamo voluto porre l’attenzione sulle differenze intergenerazionali, demografiche e sociali, che contraddistinguono l’Italia del presente,

e provato a riflettere sui vincoli e le opportunità delle diverse generazioni, anche alla luce delle trasformazioni del sistema economico:

un modo per parlare – in particolare ma non solo – del ruolo e delle difficoltà che incontrano le generazioni più anziane e quelle più giovani, su cui il Rapporto ha spesso riflettuto negli ultimi anni.

Come di consueto, in questa presentazione mi soffermerò dapprima sull’evoluzione recente del quadro economico e demo-sociale, per poi entrare nel dettaglio delle analisi più specifiche che abbiamo condotto in questa edizione.

 

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Economia e ambiente

Il quadro macroeconomico è caratterizzato – come sapete – da molte incertezze, acuitesi negli ultimi mesi soprattutto per i rischi di frammentazione del commercio internazionale.

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Nel 2024 l’economia italiana ha continuato a espandersi a un ritmo contenuto:

la crescita del Pil è stata pari allo 0,7 per cento, analoga a quella registrata nel 2023.

L’aumento è risultato inferiore rispetto a Francia e Spagna ma superiore a quello della Germania, in contrazione per il secondo anno consecutivo.

Nel nostro Paese, l’andamento dell’attività ha risentito della debolezza della domanda interna e del ridotto apporto della domanda estera, anche per via della bassa crescita complessiva dell’Unione.

I consumi delle famiglie sono cresciuti dello 0,4 per cento, a fronte di un incremento del potere d’acquisto dell’1,3, e la crescita degli investimenti fissi lordi è rallentata sensibilmente;

a frenarla hanno contribuito la flessione della spesa per abitazioni, dovuta al ridimensionamento degli incentivi pubblici, e di quella per impianti e macchinari;

sono in aumento, invece, gli investimenti nell’edilizia non residenziale, che hanno beneficiato dei fondi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, e quelli immateriali.

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Dal lato dell’offerta, il valore aggiunto ha segnato nel 2024 una crescita nell’agricoltura e nelle costruzioni, mentre ha decelerato nei servizi, saliti dello 0,6 per cento;

sono invece proseguite le difficoltà per il settore manifatturiero, in calo dello 0,7.

Le stime preliminari del Pil che l’Istituto ha diffuso a fine aprile indicano, per il primo trimestre del 2025, una crescita congiunturale dello 0,3 per cento e una acquisita dello 0,4.

L’andamento degli ultimi mesi, di poco superiore a quello di Germania e Francia, riflette un aumento del valore aggiunto nei comparti primario e industriale e una stasi in quello dei servizi;

dal lato della domanda, si rileva un contributo positivo della componente nazionale al lordo delle scorte, e un apporto lievemente negativo di quella estera netta.

Per l’Italia, i principali organismi nazionali e internazionali prevedono il mantenimento o una lieve diminuzione del ritmo di crescita dello scorso biennio.

Contabilità

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Oltre che dall’andamento del commercio globale, l’espansione dell’economia dipenderà dall’evoluzione della domanda interna di consumi e del potere d’acquisto delle famiglie, penalizzate dalla ripresa dell’inflazione nei primi mesi di quest’anno, nonché dal buon esito dell’evoluzione degli investimenti pubblici e privati finanziati dal PNRR.

Per quanto riguarda la finanza pubblica, i dati più recenti hanno confermato il miglioramento significativo del saldo primario nel 2024, positivo per la prima volta dal 2019, e la discesa dell’indebitamento netto dal 7,2 al 3,4 per cento del Pil;

si è interrotta, invece, la riduzione del rapporto debito/Pil, salito dal 134,6 del 2023 al 135,3 per cento dell’anno scorso.

Negli ultimi anni, l’andamento dell’occupazione ha mostrato segnali decisamente positivi:

nel 2024 il numero di occupati è sensibilmente aumentato, benché a un ritmo inferiore a quello dell’anno precedente – 1,5 per cento, dal 2,1 –, raggiungendo a fine anno i 24 milioni;

la crescita è stata prevalentemente riconducibile alla componente a tempo indeterminato.

L’Italia resta, tuttavia, il Paese con il tasso di occupazione tra i 15 e i 64 anni più basso d’Europa, a causa dei livelli inferiori di partecipazione e occupazione dei giovani e delle donne, e al ritardo del Mezzogiorno.

Rispetto al 2019, il tasso di occupazione è salito di 3,2 punti percentuali:

la crescita è stata maggiore dai 45 anni in su e tra i laureati, con un ampliamento di un punto del differenziale con i meno istruiti.

Nell’anno passato si è consolidato il processo di disinflazione:

l’aumento dell’Indice dei Prezzi al consumo Armonizzato per i paesi dell’Unione Europea, che a ottobre 2022 aveva raggiunto il 12,6 per cento, è rallentato al 5,9 nel 2023 e all’1,1 nel 2024, il valore più contenuto tra le grandi economie europee.

Nella seconda parte dell’anno e nei primi mesi del 2025, la dinamica dei prezzi ha mostrato tuttavia una moderata ripresa:

ad aprile, l’inflazione acquisita per il 2025 ha raggiunto l’1,8 per cento.

Nell’ultimo biennio, le retribuzioni contrattuali hanno iniziato a recuperare in termini reali ma in misura insufficiente a coprire il ritardo maturato negli anni precedenti:

rispetto a gennaio 2019, la perdita di potere d’acquisto per dipendente era superiore al 15 per cento a fine 2022 ed è ancora pari al 10,0 per cento a marzo 2025.

Nel confronto europeo, tra il 2019 e il 2024, le retribuzioni lorde di fatto per dipendente in termini reali sono diminuite del 4,4 per cento in Italia, del 2,6 in Francia e dell’1,3 in Germania, mentre in Spagna si è registrato un aumento del 3,9.

Nell’ultimo decennio, la crescita modesta dell’economia italiana ha risentito di condizioni macroeconomiche non favorevoli, ma anche di alcune caratteristiche strutturali del sistema produttivo – quali la ridotta dimensione media delle imprese e la specializzazione orientata verso produzioni a minore contenuto tecnologico – che ne hanno frenato l’espansione.

Nel nostro Paese, l’incidenza delle Risorse Umane in Scienza e Tecnologia tra gli occupati resta, nel 2023, inferiore di circa 10 punti percentuali rispetto a Germania e Spagna e di 17 nei confronti della Francia.

Questo elemento di debolezza va di pari passo con il permanere di un’intensità della spesa in Ricerca e Sviluppo relativamente contenuta, e con un ritardo nell’adozione delle tecnologie digitali che richiedono maggiori competenze, come l’intelligenza artificiale.

Cogliere le opportunità tecnologiche rappresenta una sfida chiave per il Paese che, come avrò modo di dire più avanti, è strettamente connessa all’intensità dell’investimento in capitale umano e nelle generazioni più giovani.

Una direzione di sviluppo importante – non certo dissociata dall’investimento in innovazione e nuove tecnologie – è quella legata alla sostenibilità ambientale;

ciò, è vero, a diversi livelli:

dalla gestione delle fragilità del territorio, alla riduzione dell’impatto ambientale delle attività produttive – su cui si sono registrati progressi –, all’importanza della transizione energetica e della produzione di energia da fonti rinnovabili, tema che si intreccia con quello della riduzione della dipendenza energetica dall’estero.

Il Rapporto ricorda in particolare come, per il nostro Paese, l’impatto sulle attività economiche dell’aumento di frequenza degli eventi estremi – attenuabili solo attraverso attività di prevenzione – sia stato particolarmente significativo:

tra il 1980 e il 2023, l’Agenzia europea per l’ambiente stima perdite dovute a cause ambientali pari a 134 miliardi di euro, ponendoci al secondo posto tra i Paesi dell’Unione, dopo la Germania e prima della Francia.

Un’analisi realizzata combinando la mappa dei Comuni esposti a rischi naturali con le informazioni tratte dal Registro delle unità produttive ha evidenziato che, nel 2022, il 18,2 per cento del valore aggiunto di industria e servizi era prodotto in unità locali ubicate in territori esposti a rischi di frane e sismicità elevata.

 

 

Popolazione e società

Il quadro demografico e sociale del nostro Paese continua a riflettere trasformazioni profonde, che attraversano generazioni, territori e gruppi sociali.

Al 1° gennaio 2025, la popolazione residente in Italia è ormai sotto i 59 milioni.

Come più volte ricordato, la diminuzione – in atto dal 2014 – è dovuta a una dinamica naturale fortemente negativa;

la natalità continua a calare – nel 2024 si sono registrate solo 370 mila nascite – e la fecondità ha toccato il minimo storico di 1,18 figli per donna, sfavorita dalla riduzione del numero di donne in età fertile e dal crescente rinvio della genitorialità.

Il saldo migratorio, pur essendo ampiamente positivo, è insufficiente a compensare la perdita di popolazione.

191 mila persone, inoltre, hanno lasciato il Paese nel 2024 – segnando un incremento del 20,5 per cento rispetto al 2023 – di cui oltre 156 mila cittadini italiani.

Preoccupante è l’aumento dell’espatrio tra i giovani 25-34enni con una laurea:

21 mila nel 2023, un record storico;

il risultato è una perdita netta di 97 mila giovani laureati in dieci anni.

Il 2024 ha segnato anche la fine della crisi di mortalità legata alla pandemia.

La speranza di vita alla nascita cresce, raggiungendo 83,4 anni, recuperando completamente i livelli pre-Covid-19 sia per gli uomini sia per le donne.

È importante ribadire che l’Italia si conferma tra i Paesi europei più longevi.

Questa constatazione, in sé molto positiva, si riflette però anche nell’invecchiamento della struttura per età della popolazione:

un quarto dei residenti ha almeno 65 anni, il doppio rispetto ai minori di 15.

Gli ultraottantenni sono quasi 4,6 milioni e gli ultracentenari toccano un nuovo massimo, superando i 23.500.

Le previsioni demografiche – che spesso richiamiamo nei nostri interventi – confermano un futuro segnato da ulteriore invecchiamento, calo delle nascite e crescente numero di decessi, a fronte di un’evoluzione dei flussi migratori, potenziale fattore di riequilibrio strutturale, che presenta ampi margini di incertezza.

Le famiglie stanno diventando sempre più piccole.

Il crollo della nuzialità, l’instabilità coniugale, la bassa fecondità e il posticipo della genitorialità alimentano la crescita delle famiglie ricostituite, delle coppie non coniugate, dei genitori soli non vedovi che vivono con i figli e delle persone sole non vedove:

insieme, queste forme familiari rappresentano oggi oltre il 41 per cento del totale.

Colpisce, in particolare, l’aumento delle persone che vivono da sole:

riguarda tutte le età, ma soprattutto gli anziani, sfiorando il 40 per cento tra gli ultrasettantacinquenni, in maggioranza donne.

Entro il 2043 si stima che le persone di 65 anni e più che vivono da sole saranno oltre 6 milioni, con implicazioni rilevanti nei rapporti inter e intra-generazionali.

Si tratta di cambiamenti, dobbiamo ribadirlo, che caratterizzeranno in misura ancora più significativa i prossimi decenni e che contribuiranno a ridisegnare anche la struttura delle reti familiari e sociali.

Resta elevata la quota di 18-34enni che continuano a vivere nella famiglia di origine, circa due terzi, contro una media europea del 49,6 per cento.

La difficoltà di raggiungere l’indipendenza economica ostacola l’autonomia e ritarda tutte le tappe dei giovani verso l’età adulta, genitorialità compresa.

L’invecchiamento richiederà un’attenzione particolare nel garantire condizioni di salute migliori a tutta la popolazione.

Il primato di longevità del nostro Paese si deve anche ai livelli contenuti del tasso di mortalità evitabile, ovvero i decessi sotto i 75 anni che potrebbero essere ridotti o prevenuti attraverso interventi di sanità pubblica, prevenzione dei fattori di rischio e adeguata assistenza sanitaria:

si tratta del secondo più basso in Europa.

Negli ultimi dieci anni, il nostro Paese ha visto tuttavia ridursi in misura meno consistente che negli altri principali paesi europei la componente trattabile, associata alla capacità del sistema sanitario di diagnosticare e curare tempestivamente.

Migliorare questa condizione richiede un potenziamento degli screening, della diagnosi precoce e delle terapie, assicurando un sistema sanitario ancora più in grado di rispondere efficacemente ai bisogni di cura.

Le criticità nell’accesso ai servizi sanitari si manifestano nella rinuncia alle cure, dovuta a motivi economici, organizzativi o legati all’offerta.

La quota di popolazione che ha rinunciato a visite o esami clinici è cresciuta dal 6,3 per cento nel 2019 al 9,9 per cento nel 2024, per lo più a causa delle liste d’attesa o delle difficoltà a pagare le prestazioni sanitarie.

Rispetto al 2023, il ricorso al privato – ovvero sostenere l’intero costo dell’ultima prestazione senza rimborsi da assicurazioni – è salito dal 19,9 al 23,9 per cento della popolazione.

La rinuncia alle cure colpisce soprattutto le donne e gli adulti 45-54enni, e cresce anche nel Nord e tra i più istruiti, riducendo i tradizionali vantaggi sociali e territoriali.

Dal 2019 è in aumento anche il disagio psicologico: questo fenomeno interessa in realtà molti paesi OCSE e coinvolge in particolare gli anziani, ma è in crescita tra i giovani, soprattutto donne.

 

 

Una società per tutte le età

Come ho già osservato, l’aumento della sopravvivenza sta trasformando radicalmente la struttura della popolazione italiana, dando origine a una società in cui convivono – insieme e più a lungo – diverse generazioni, i cui percorsi di vita contribuiscono in modo naturale a ridefinire il contesto demografico, sociale ed economico del nostro Paese.

In questa edizione del Rapporto abbiamo voluto analizzare l’evoluzione dei loro comportamenti, provando a comprendere le esigenze di una popolazione che invecchia, e al contempo chiede nuove opportunità,

e che è chiamata a confrontarsi con vecchi e nuovi divari socioeconomici e territoriali.

Il confronto fra le generazioni conferma il cambiamento profondo nel modo in cui si entra nella vita adulta.

Negli ultimi quarant’anni, i matrimoni sono diminuiti costantemente:

da oltre 400 mila negli anni Settanta del secolo scorso a poco più di 280 mila a fine anni Novanta.

Dopo la crisi del 2008 il calo si è accentuato e nel 2023 si sono fermati poco sopra i 184 mila.

Le cause sono strutturali:

da un lato, la denatalità ha ridotto il numero di giovani adulti;

dall’altro, sono cambiati i comportamenti familiari e le unioni libere sono sempre più diffuse, vissute come alternativa stabile o tappa intermedia prima delle nozze, spesso anche in presenza di figli.

Così, la propensione a sposarsi continua a calare di generazione in generazione:

tra le donne nate nel 1933, solo il 13 per cento non era sposata entro i 40 anni;

la quota sale al 42 per cento per le nate nel 1983.

È uno dei due tratti distintivi della cosiddetta “Seconda transizione demografica”, iniziata in Italia dagli anni Settanta e che ha trasformato profondamente i modelli familiari.

L’altro è la fecondità bassa e tardiva.

Osservando le generazioni di donne che hanno concluso la loro storia riproduttiva, si nota una riduzione costante del numero medio di figli:

nel Nord, le donne nate nel 1933 avevano già in media meno di due figli,

una soglia raggiunta nel Centro con la generazione del 1939 e nel Mezzogiorno solo con quella del 1961.

Per le donne oggi quarantenni, si stima una discendenza finale ancora più bassa:

in media 1,44 figli per donna.

Nel passaggio dalla generazione delle madri a quella delle attuali quarantenni, raddoppia la quota di donne senza figli – dal 13 al 26 per cento –, con un picco di circa tre donne su dieci nel Mezzogiorno.

Parallelamente, si riscontra un’accentuata posticipazione dell’età alla nascita del primo figlio, che aumenta la probabilità di avere un numero di figli inferiore alle attese o di non averne affatto.

L’età media alla nascita del primo figlio è salita da 25,9 anni per le nate del 1960 a 29,1 per quelle del 1970, con un rinvio ancora maggiore nelle generazioni più recenti.

Lo spostamento in avanti delle principali tappe che contraddistinguono i percorsi di vita riguarda anche l’età in cui si diventa anziani.

In demografia la soglia dei 65 anni definisce convenzionalmente l’ingresso nella vecchiaia;

ma con l’aumento della longevità e il miglioramento delle condizioni di vita, a 65 anni molte persone vivono oggi in buona salute, lavorano, mantengono una vita attiva e partecipano pienamente alla società.

Nel Rapporto si propone un approccio dinamico per la determinazione della soglia della vecchiaia, ben noto in demografia, che considera non l’età anagrafica fissa ma la speranza di vita residua.

Nel 1952, un uomo a 65 anni poteva aspettarsi di vivere ancora 13 anni, una donna 14.

Applicando oggi lo stesso criterio basato sulla speranza di vita residua, la soglia di ingresso nella vecchiaia si sposterebbe a 74 anni per gli uomini e 75 per le donne, cambiando sensibilmente la percezione dell’invecchiamento:

nel 2023, il 21,6 per cento degli uomini e il 26,3 per cento delle donne risultano anziani secondo la definizione tradizionale,

usando la soglia dinamica si scende all’11,4 e al 14,2 per cento.

Certamente, l’obiettivo di questo approccio non è negare le criticità dell’invecchiamento, ma rileggere il fenomeno alla luce del miglioramento delle condizioni di salute.

Ed è importante ricordare che l’aumento degli anni di vita in buona salute non tiene sempre il passo con la longevità complessiva.

Il Rapporto mostra anche come, dal 1951 a oggi, il profilo per livello di istruzione della popolazione anziana si sia profondamente trasformato:

se nel 1951 oltre l’80 per cento degli ultrasessantacinquenni non aveva alcun titolo di studio, nel 2021 questa quota è scesa al 5,9 per cento;

inoltre, i titoli di studio più elevati, seppur ancora minoritari, sono cresciuti con continuità: dall’1,1 per cento nel 1951 all’8,8 settant’anni dopo.

Tali cambiamenti segnalano un progressivo rafforzamento del capitale umano nella fascia anziana della popolazione, con potenziali ricadute positive su silver economy e partecipazione sociale, culturale ed economica di questa fascia di popolazione.

I progressi registrati non sono tuttavia uniformi, e sussistono divari legati alla condizione socioeconomica e al territorio.

È soprattutto nei territori più fragili, come le Aree Interne, dove l’invecchiamento si intreccia allo spopolamento, alla bassa fecondità, all’emigrazione giovanile e alla ridotta attrattività per i flussi migratori dall’estero, che emergono le maggiori criticità.

In questi contesti, la presenza di anziani soli o in coppie senza figli è più frequente e si dirada spesso la rete di persone su cui poter contare.

La maggior parte delle persone con 65 anni o più, peraltro, vive e invecchia rimanendo al proprio domicilio e le condizioni di vita del luogo in cui si vive influenzano ancor di più la quotidianità degli individui di questa fascia di età, andando a orientare le traiettorie di benessere.

In generale, in ragione delle esperienze vissute dalle diverse generazioni, i cambiamenti nella popolazione si realizzano attraverso un ricambio non solo quantitativo ma anche qualitativo.

I nati dagli anni Cinquanta in poi hanno beneficiato di migliori condizioni di vita, dell’introduzione del Servizio Sanitario Nazionale negli anni Settanta e – come abbiamo visto – di un maggiore livello di istruzione, con stili di vita più salutari ed effetti positivi sulla salute anche in età avanzata.

Accanto a questi segnali, sono emerse nuove criticità:

tra quelle analizzate nel Rapporto, l’aumento dei casi di sovrappeso e di obesità già dall’infanzia, la diffusione di nuove forme di fumo, e tra i più giovani, i fenomeni di ubriacature dovute soprattutto al consumo di alcool fuori pasto.

Tra i cambiamenti più rilevanti negli stili di vita delle generazioni emerge sicuramente l’utilizzo crescente delle tecnologie digitali, che hanno trasformato istruzione, lavoro, relazioni sociali, accesso all’informazione e partecipazione culturale.

Se da un lato queste tecnologie offrono nuove opportunità di benessere, dall’altro rischiano di accentuare le disuguaglianze, creando nuove forme di esclusione per chi non ha accesso o competenze adeguate, che spesso finiscono per sommarsi ad altre forme di vulnerabilità.

 

 Sistema economico e generazioni

Nel Rapporto abbiamo voluto dedicare un’ampia parte all’evoluzione dei vincoli e delle opportunità economico-professionali individuali nel corso degli ultimi due decenni, secondo una prospettiva di confronto generazionale.

Come sappiamo, l’Italia degli anni Duemila si è contraddistinta per una crescita economica modesta e una dinamica molto debole della produttività.

Questi fattori si sono riflessi sull’andamento dei redditi e, più in generale, hanno limitato le prospettive di realizzazione personale.

In questo periodo, del resto, sono cresciute le possibilità di occupazione ma meno quelle di benessere economico, anche perché la domanda di lavoro è stata più rilevante in settori a ridotta produttività e bassi salari.

La trasformazione più importante nel modificare le caratteristiche e le opportunità professionali tra le generazioni è rappresentata dall’istruzione.

Nel 1980 quasi la metà dei giovani tra i 15 e i 24 anni faceva parte delle forze di lavoro, mentre tra i loro coetanei del 2024 gli attivi sono uno su quattro e più di due terzi sono inattivi perché ancora impegnati in percorsi di studio o formazione.

Tra l’inizio degli anni Novanta e il 2023, la quota di laureati tra i 25-34enni è salita dal 7 a oltre il 30 per cento, e fino al 37,1 tra le donne, che in questa fascia d’età hanno raggiunto tassi di occupazione analoghi a quelli dei coetanei laureati.

Così, nella prospettiva individuale, l’effetto della caduta del reddito reale tra il 2004 e il 2024 è attenuato dal suo aumento lungo il ciclo di vita attiva, in particolare grazie al premio dell’investimento nell’istruzione, che si estende oggi a una quota più ampia di adulti.

La crescita dell’occupazione femminile ha consentito poi di compensare a livello familiare la riduzione dei redditi individuali.

Nel complesso, negli ultimi venti anni, il reddito da lavoro per occupato in termini reali è calato del 7,2 per cento, ma – per effetto della contrazione dei nuclei familiari e dell’aumento dei componenti attivi – si è avuta una crescita del 6,3 per cento del reddito familiare equivalente.

Tra il 2011 e il 2022, a livello nazionale, la quota di adulti tra 18 e 65 anni che hanno percepito redditi da lavoro è aumentata sensibilmente e anche il reddito mediano è cresciuto, ma il territorio ha continuato a condizionare notevolmente le opportunità:

gran parte delle città metropolitane del Centro-nord ha esercitato una funzione attrattiva, con una crescita di occupazione e redditi superiore alla media nazionale e, a differenza del resto del Paese, un aumento della popolazione;

è invece rimasto penalizzato il Mezzogiorno, seppure con forti differenze tra aree più dinamiche e in sofferenza;

specifiche aree periferiche o in declino industriale si osservano anche nel Centro-nord.

Il Rapporto si sofferma sui fattori individuali che possono aver influenzato le possibilità di realizzazione economica, sfruttando un’ampia base dati longitudinale disponibile per il periodo 2011-2022.

Un approfondimento ha riguardato la popolazione di circa 550mila giovani nati nel 1992, generazione entrata nel mercato del lavoro più recentemente e in un contesto non facile.

L’analisi ha messo in luce una mobilità intergenerazionale limitata ma non assente, indicando un ruolo non trascurabile delle capacità e delle scelte degli individui.

Il contesto familiare di origine resta determinante per la scelta e gli esiti del processo formativo e, per questa via, per l’inserimento professionale e il reddito.

Anche in connessione con le capacità economiche delle famiglie, ha conseguito un titolo terziario il 17,6 per cento dei giovani provenienti da famiglie in cui nessun genitore possedeva un diploma, contro i tre quarti dei figli della minoranza con genitori entrambi laureati, il 4 per cento;

tra i primi, più di un terzo non raggiunge neppure il diploma secondario.

In positivo si può osservare che anche tra i giovani delle famiglie a bassa istruzione una quota non trascurabile ha completato un ciclo universitario, e che più di un terzo di quelli provenienti da famiglie con i redditi equivalenti nel quarto inferiore della distribuzione percepiva a trent’anni redditi imponibili medio-alti rispetto ai coetanei.

In complesso, gli esiti professionali e il percorso economico tra il 2011 e il 2022 sono risultati associati con il livello raggiunto negli studi, con il loro orientamento – con un vantaggio per le discipline tecnico-scientifiche – e con l’area territoriale di provenienza e il genere.

Il Rapporto indaga anche la relazione tra invecchiamento della popolazione ed evoluzione del sistema produttivo.

Nel complesso delle attività economiche, le dinamiche generali della popolazione e il posticipo dell’età pensionabile hanno determinato, tra il 2011 e il 2022, un progressivo invecchiamento degli addetti.

La scolarizzazione, molto più elevata tra i nuovi entranti rispetto a chi è andato in pensione, ha permesso comunque un aumento del livello di istruzione pari a 0,7 anni di studio equivalenti per addetto, al quale corrisponde una crescita di oltre cinque punti percentuali della quota di laureati tra gli occupati, dal 14,1 al 19,4 per cento.

Le nostre analisi mostrano anche che circa il 30 per cento delle imprese risulta molto esposto all’invecchiamento della forza lavoro.

Si tratta perlopiù di unità economiche di dimensioni minori e concentrate nei servizi, in cui l’occupazione coincide in larga parte con l’autoimpiego del titolare.

Tra le piccole imprese la quota è pari al 3,7 per cento, mentre per medie e grandi si scende sotto l’1.

Un aspetto di rilievo riguarda il ruolo dei giovani – e in particolare dei giovani qualificati – sulla capacità delle imprese di innovare e competere, a prescindere dal settore di attività economica.

L’analisi condotta sulla Rilevazione multiscopo associata al Censimento permanente delle imprese ha evidenziato che, nel 2022, le imprese meno interessate dal fenomeno dell’invecchiamento presentavano un’incidenza maggiore di innovatrici e una penetrazione della digitalizzazione più elevata.

 

 

Conclusioni

Mi avvio alle conclusioni.

Nel 2024, il consolidamento del rientro da una fase di inflazione elevata e l’espansione dell’occupazione hanno rappresentato risultati positivi per il Paese, che non devono però far dimenticare i vincoli alla crescita e gli squilibri che inibiscono uno sviluppo più sostenibile e inclusivo.

Questi ostacoli appaiono particolarmente gravosi per le giovani generazioni, a cui vogliamo dedicare le ultime considerazioni di questa presentazione:

ridotte nel numero ma più istruite, esse risultano spesso condizionate da divari territoriali e sociali che influenzano negativamente le possibilità di ingresso e crescita nel mondo del lavoro.

Le trasformazioni in atto nella qualità dell’occupazione, e in particolare la crescita molto rapida del capitale umano nelle generazioni più giovani, rappresentano una grande opportunità per accelerare la trasformazione del nostro Paese.

Questo processo deve essere però rafforzato, mitigando le disparità ancora pronunciate nell’accesso ai livelli più alti di istruzione, sostenendo l’inserimento professionale e i percorsi di carriera e la formazione tecnica e specialistica, promuovendo comportamenti proattivi da parte delle imprese in particolare sul versante dell’innovazione.

Voglio chiudere questa presentazione come spesso abbiamo fatto negli ultimi anni, richiamando l’importanza della statistica ufficiale.

La fiducia nel nostro lavoro non deve essere data per scontata, e siamo consapevoli che l’investimento nella qualità dei dati riveste un ruolo sempre più importante di fronte all’aumento della disponibilità di informazioni.

È necessaria da parte nostra una notevole capacità di innovazione e insieme di rigore metodologico, in particolare nell’utilizzo delle nuove fonti informative e delle nuove tecnologie, anche per rafforzare la misurazione dei fenomeni economici e sociali emergenti e delle aree di fragilità.

Obiettivi questi, perseguibili grazie all’impegno delle colleghe e dei colleghi dell’Istat, che quotidianamente svolgono con professionalità il proprio lavoro, e che voglio ringraziare.

Il prossimo anno l’Istituto Nazionale di Statistica compirà cent’anni.

Sarà certamente un’occasione per raccontare la storia del Paese nei suoi passaggi chiave attraverso i numeri e le innovazioni introdotte, ma anche per consolidare la nostra capacità di dialogo e di ascolto.

Vi ringrazio per l’attenzione.

Francesco Maria Chelli

 

 

 

 



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