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Dazi, la scossa dei mercati che può fermare Trump. E i grandi fondi Usa potrebbero guidare la rivolta


Il colpo s’è sentito. Con un solo cinguettio Donald Trump ha cancellato un mese e mezzo di speranza. Al Festival dell’Economia di Trento, decine di economisti avevano preparato interventi su quale potesse essere la conclusione del negoziato, il punto di caduta tra gli Stati Uniti e l’Europa. Il ministro dell’Economia Giancarlo Giorgetti, si era collegato dal G7 Canadese per dirsi ottimista su un accordo. Tutto cancellato. Si torna alla casella del via. Al 2 aprile, al “Liberation Day” nel giardino delle rose alla Casa Bianca. Anzi, pure peggio. Tariffe al 50 per cento invece del 30 per cento. A Marco Fortis, economista, vice presidente della Fondazione Edison, è stato chiesto quale potesse essere, in questa epoca caotica, un indicatore, una bussola, in grado di dire a che punto è la notte. «Il numero dei post di Trump», ha scherzato ma non troppo. Perché anche gli esperti della materia non sanno più orientarsi dentro questa incertezza. Lilia Cavallari, presidente dell’Upb, l’Ufficio Parlamentare di Bilancio, ha notato come per vedere a pieno l’effetto dei dazi «dovremo aspettare», ma gli «effetti di questa incertezza li vediamo subito». C’è un indicatore importantissimo in grado di misurare la temperatura dell’economia. È quello sulle intenzioni di acquisto dei manager delle imprese. Sta andando giù a picco. Vuol dire che tutto può fermarsi di nuovo. Felice De Gregorio, capo economista di Intesa San Paolo nota come l’indicatore dell’incertezza sia superiore oggi persino alle prime fasi della pandemia. «Dal 9 aprile», cioè dopo che Trump ha sospeso per 90 giorni di dazi decisi nel Liberation Day, aggiunge Cavallari, «le tariffe medie effettive sono comunque schizzate al 19%. Una cosa mai vista dal dopoguerra». È lo stesso livello degli anni ‘30. Un paragone che spaventa.

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LO SGUARDO

Ma più di tutto, a colpire nei dibattiti che si susseguono incalzanti al Festival dell’Economia, è dove gli economisti e i tecnici volgono lo sguardo quando si tratta di trovare qualcuno che davvero possa fare opposizione a The Donald, convincerlo alla marcia indietro. Lo dice chiaro Gylfi Zoega, professore dalla University of Iceland. «Non c’è opposizione a Trump né nel suo partito e nemmeno nel congresso che controlla. Solo il mercato dei capitali è in grado di contrastarlo». Lo ha già fatto una volta, dopo il due aprile, quando i grandi fondi hanno iniziato a lasciare in massa l’America facendo crollare contemporaneamente Wall Street, il dollaro e i T-Bond. Anche stavolta insomma, la speranza è che sia la finanza globale a far cambiare idea al Tycoon. De Felice parla apertamente di «Bond holder vigilantes», una sorta di sceriffi del debito americano, possessori di T-Bond pronti a venderli nel momento in cui il Tycoon dovesse esagerare troppo. Non è semplice, però per lui fare marcia indietro. Trump è arrivato alla Casa Bianca con il voto di quella metà di America sconfitta. Non solo, e forse non tanto, dalla globalizzazione. Ma dallo stesso modello di crescita degli Stati Uniti che ha arricchirto la Silycon Valley e Wall Street impoverendo Main Street. «Nei primi quattro mesi della presidenza», spiega Marcello Messori, economista e docente dell’Istituto Universitario Europeo, «Trump ha sferrato un attacco sostanziale alla democrazia liberale». Il paradosso sta tutto qui. Un miliardario che si mette alla testa delle masse impoverite dell’America per sfidare il capitalismo. Che non può far altro che reagire, portando i soldi altrove. In Europa? Forse. In parte, per ora. Ma anche il Vecchio Continente deve decidere cosa vuol fare da grande. Se fornire al mondo un “safe asset” alternativo ai titoli americani che solo una vera unione politica e monetaria può consentire. Ma c’è un’altra sensazione che emerge nei panel del Festival di Trento: che la Cina in qualche modo abbia saputo giocarsi meglio le sue carte con Trump. Non la Gran Bretagna. Lo spiega Paolo Magri, presidente del Comitato scientifico dell’Ispi. «La Gran Bretagna», dice, «è entrata nei negoziati con dazi del 10 per cento e ne è uscita con dazi del 10 per cento e qualche esenzione che nemmeno loro hanno ancora capito. Non mi sembra un esempio». L’Europa, e questo lo si può solo sussurrare, tratta unita con il Commissario Maroš Šefčovič, ma in fondo tanto unita non è. C’è chi vuole la de-escalation con gli americani, come Italia e Germania, e chi invece pensa sia meglio seguire l’esempio cinese e passare all’escalation. Ma tutte le analisi dicono che per l’Europa i danni di una risposta sarebbero molto più alti di quelli di una non risposta. E poi il Vecchio Continente vende agli Stati Uniti Mercedes, Ferrari, BmW, Yacht. La Cina avrebbe svuotato gli scaffali dei supermercati di Walmart dove compra la classe lavoratrice. Non è la stessa cosa. Conviene sperare che a convincere Trump a più miti consigli siano i grandi capitali.

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