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Stadi, visione, management: cosa manca al calcio italiano per restare competitivo


di
Carlo Amenta

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Il recente decreto legge del governo, che interviene sulla situazione stadi, va nella giusta direzione, ma serve un cambio di passo anche dalle proprietà: il modello del presidente-padrone funziona sempre meno, il calcio ormai è un’industria come quelle tradizionali e va trattata con le stesse logiche

Se è vero, come pare abbia affermato Arrigo Sacchi, che «il pallone è la cosa più seria fra le cose meno serie», va salutato con grande favore il recente decreto-legge con cui il governo ha deciso di intervenire anche sulla situazione degli stadi delle società di calcio professionistico, in troppi casi vetusti e non più adeguati alle moderne esigenze di tifosi e operatori sportivi. Gli investimenti già programmati sono circa di 5 miliardi di euro, ma pare che la cifra sia destinata a crescere e tutte le procedure di costruzione o rinnovo saranno affidate a un commissario con poteri straordinari per superare i lacci e lacciuoli di una burocrazia che troppo spesso blocca progetti e iniziative di ammodernamento. Si tratta di un intervento utile che segue anche il riordino delle norme sul lavoro sportivo e traccia una strategia di modernizzazione del settore che appare non più procrastinabile. Il mondo dello sport ha conosciuto una crescita tumultuosa in termini economici negli ultimi cinquant’anni diventando così un elemento fondamentale anche per l’economia di tutti i paesi sviluppati. Secondo un recente studio commissionato dall’Unione europea, il Prodotto Interno Lordo generato dalle attività economiche connesse allo sport nel 2018 era pari a 279,7 miliardi di euro, pari a una percentuale del 2,12% dell’intero Pil europeo. 

Un’industria come quelle tradizionali

L’impatto di questo settore sull’occupazione è altrettanto rilevante in quanto esso impiega quasi sei milioni di persone, pari al 2,72% dell’occupazione complessiva in Europa. In Italia, un recente lavoro dell’Istituto per il Credito Sportivo fissa la percentuale di Pil generata dal settore sportivo per il 2019 al 1,37% del totale con un valore complessivo di 24,5 miliardi di euro e circa 420 mila occupati. Non è un caso quindi se osserviamo sempre più frequenti investimenti da parte di fondi e di gruppi stranieri anche nel calcio italiano. Il calcio è ormai una vera e propria industria e comincia ad attrarre chi è interessato a fare profitto adottando logiche di gestione non lontane da quelle delle società tradizionali. Oggi non c’è alcuna ragione per trattare lo sport in maniera differente da una industria ordinaria, ma vanno aggiornati i modelli di gestione che restano in molti casi ancorati al modello di presidente-padrone che si occupa della squadra in maniera personalistica e con scarsa attenzione alla struttura di governance. Uno dei temi accademici più interessanti è la presenza, nel settore sportivo professionistico, di soggetti che massimizzano il profitto (profit-maximizer) e di quelli che massimizzano l’utilità (utility-maximizer). Nell’ambito sportivo il primo modello è tipico degli sport statunitensi dove le leghe professionistiche di basket, football, hockey e baseball sono macchine da soldi che contano sullo sviluppo di brand globali.




















































Il modello italiano (avviato al tramonto)

In Italia siamo sempre stati troppo spesso abituati a imprenditori sportivi del secondo tipo che massimizzano la propria utilità attraverso l’investimento nel calcio e le vittorie e la notorietà che ne conseguono. Il ricco industriale impiega le proprie risorse personali non curandosi del risultato economico di fine anno e le perdite si accumulano consentendogli comunque un miglioramento della propria reputazione con ricadute positive nel business principale. Lo sport diventa quindi un investimento monetario «a perdere» con effetti positivi indiretti e questo ha fortemente limitato una maggiore professionalizzazione del settore a discapito di organizzazioni con migliori competenze e modalità di gestione moderne. Il modello del «massimizzatore di utilità» sembra però avviato al tramonto e la scarsa sostenibilità finanziaria dei modelli di gestione tradizionale del calcio italiano testimonia la necessità di un cambio di passo che i recenti provvedimenti organizzativi potranno aiutare, anche dotando le squadre di impianti moderni e all’avanguardia. Se da un lato è vero che la voce principale dei ricavi delle società di calcio è data dalla vendita dei diritti tv, va anche evidenziato come lo stadio resti il tempio del tifo, il luogo dove avviene la magia, dove si crea la relazione con il tifoso consumatore, dove si creano le leggende delle vittorie e si cementano le tradizioni.

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La necessità di un aggiornamento

Lo stadio non può più essere un luogo frequentato solo poche volte al mese in occasione degli eventi sportivi, ma deve diventare il cuore pulsante di strategie di attrazione di marketing e il posto dove il tifoso può vivere la propria passione tutti i giorni della settimana. Vanno introdotte strategie di differenziazione dell’offerta con prezzi adeguati ai benefici che non possono esaurirsi solo nella visione del match. Un giro per gli stadi britannici – ormai integralmente gestiti dalle squadre di Premier League con la conseguente crescita esponenziale dei ricavi che è uno dei fattori alla base della supremazia del campionato inglese – può servire come caso di studio da imparare a memoria. I modelli di governo vanno aggiornati e serve una maggiore separazione tra proprietà e management con l’arrivo di gestori professionisti che non capiscano solo di pallone (elemento fondamentale per il successo) ma sappiano orientarsi tra strategie di marketing, operazioni finanziarie e misurazione delle performance. Nick Hornby, l’autore del romanzo calcistico Febbre a 90, ricordava che il bello del calcio è che c’è sempre un’altra stagione, per tornare a sperare e a sognare. Speriamo cominci presto anche la stagione del management professionale nel calcio italiano: altrimenti ci dovremo accontentare di guardare sul divano le gesta pedatorie dei campioni d’oltremanica.

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