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Gaza: sangue sugli aiuti | ISPI


Le organizzazioni umanitarie lo avevano previsto: dopo settimane di assedio totale, la ripresa della distribuzione di cibo nella Striscia di Gaza si è trasformata in un incubo. Per tre volte in soli sei giorni la folla di palestinesi accorsa a ricevere gli aiuti – sui quali Tel Aviv ha preteso e ottenuto il monopolio – è stata raggiunta da colpi d’arma da fuoco. Le vittime sarebbero già più di 60. L’esercito israeliano nega di aver sparato sulla folla, limitandosi a colpi di avvertimento. Ma in assenza di giornalisti stranieri, banditi dall’enclave da oltre un anno e mezzo, le testimonianze raccolte dalla stampa internazionale sembrano smentire questa versione. Ieri i vertici militari israeliani hanno confermato di aver sparato contro alcune persone vicino al centro di Rafah. Intanto, la militarizzazione del supporto umanitario dopo un anno e mezzo di guerra ininterrotta e una crisi umanitaria senza precedenti nell’enclave palestinese si è trasformata in quello che l’Agenzia delle Nazioni Unite per i profughi palestinesi (Unrwa) ha definito “una trappola mortale”. Oggi i centri per la distribuzione gestiti dalla Gaza Humanitarian Foundation (Ghf)resteranno chiusi, per migliorare “l’organizzazione” e “l’efficienza” delle operazioni. L’esercito israeliano ha comunicato che le strade che conducono ai centri saranno considerate “zone di combattimento” e ha intimato ai civili di non avvicinarsi. Dure critiche al Ghf sono state mosse oggi da Unicef: “Sostengono di fornire aiuti alla popolazione, ma non sono affatto sufficienti – ha detto il portavoce James Elder – Stiamo parlando di una manciata di siti di distribuzione contro i 400 attivati durante la tregua “.

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Ghf: contractors o umanitari?

È dal 2 marzo scorso che Israele blocca tutte le consegne di cibo, carburante, medicinali e aiuti all’enclave. La scorsa settimana, in seguito alle pressioni internazionali il governo di Tel Aviv ha annunciato la ripresa di “aiuti minimi” attraverso la Ghf, un’organizzazione privata, fondata da ex contractors, le cui credenziali etiche e umanitarie sono considerate estremamente opache. Israele afferma che passare per Ghf è l’unica strada per impedire che gli aiuti siano saccheggiati o finiscano nelle mani di Hamas. Ma le Nazioni Unite e altri gruppi umanitari affermano di non aver assistito a dirottamenti di aiuti su larga scala e accusano Israele di sfruttare la disperazione dei palestinesi affamati e sfollati per agevolare la deportazione di oltre due milioni di persone nella parte meridionale della Striscia, come auspicato dal governo di Benjamin Netanyahu. Il gruppo non aveva ancora cominciato la distribuzione quando il suo direttore esecutivo, Jake Wood, si è dimesso affermando che “è chiaro che non è possibile attuare questo piano nel rigoroso rispetto dei principi di umanità, neutralità, imparzialità e indipendenza”. Al suo posto ieri è stato nominato Johnnie Moore, imprenditore e leader evangelico statunitense, vicino all’amministrazione Trump, nuovo presidente esecutivo dell’organizzazione. Ma l’organizzazione continua a perdere pezzi e anche la Boston Consulting Group (Bcg), tra le principali società di consulenza degli Stati uniti, ha comunicato oggi di aver interrotto la sua collaborazione con la Ghf.

Crolla il sostegno a Israele?

Tra offensiva militare, bilancio dei morti in continuo aggiornamento e blocco degli aiuti umanitari, il sostegno per Israele nell’opinione pubblica europea è crollato ai livelli più bassi mai registrati. È quanto emerge da un sondaggio di YouGov condotto in sei paesi europei (Regno Unito, Francia, Italia, Spagna, Germania e Danimarca), secondo il quale in tutti gli Stati presi in considerazione, meno di un quinto degli intervistati ha un’opinione favorevole su Israele. Nel complesso, solo il 13-21% della popolazione di ciascun paese ha un’opinione favorevole su Israele, rispetto al 63-70% che esprime un’opinione sfavorevole. Un cambiamento significativo, apparso nelle ultime settimane in modo manifesto attraverso petizioni online, proteste e iniziative della società civile che hanno indotto la classe politica europea a inedite prese di posizione contro Israele. La condanna espressa da diversi leader politici, da sola, non ha cambiato le cose ma c’è chi ora dalle parole passa ai fatti: la Spagna ha annullato un contratto da 285 milioni di euro per l’acquisto di  missili anticarro e lanciatori, che sarebbero stati prodotti dalla filiale spagnola della società israeliana Rafael Advanced Defense Systems. E in Italia diverse regioni e comuni hanno interrotto le relazioni istituzionali con Tel Aviv, mentre crescono le pressioni perché il governo congeli il rinnovo del memorandum d’intesa con Israele in materia di cooperazione militare e della difesa in scadenza l’8 giugno, per marcare la distanza politica da Netanyahu.

Minaccia del veto Usa all’Onu?

Ciononostante nessuno sembra riuscire a imporre un cessate il fuoco. Né i paesi arabi né gli europei, e neanche Donald Trump – di fatto l’Uvf nico ad avere il potere di influenzare Benjamin Netanyahu – ha ancora imposto la fine della guerra, come chiede una parte crescente di israeliani e della comunità internazionale. Ancora una volta, nei giorni scorsi le speranze per il raggiungimento di una tregua si sono infrante contro posizioni contrapposte e i negoziati sono giunti a un punto morto. Il nodo sta nel fatto che Hamas non vuole un cessate il fuoco senza garanzie che la guerra non riprenda una volta liberati gli ultimi ostaggi, anche se ciò significa prolungare le sofferenze della popolazione; mentre lo Stato ebraico, attraverso il suo ministro della Difesa Israel Katz, ha dichiarato ieri che l’offensiva a Gaza continuerà, con o senza negoziati. Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite ha in programma per oggi una votazione su una risoluzione che chiede “un cessate il fuoco immediato, incondizionato e permanente”. Il documento, redatto dai 10 membri eletti del consiglio, chiede anche “la revoca immediata e incondizionata di tutte le restrizioni all’ingresso degli aiuti umanitari a Gaza e la loro distribuzione sicura e senza ostacoli, da parte delle Nazioni Unite e dei partner umanitari” e ribadisce la richiesta di “rilascio di tutti gli ostaggi” tenuti prigionieri da Hamas e altri gruppi in seguito all’attacco del 7 ottobre 2023 nel sud di Israele. Ma sul voto, previsto in serata, incombe la minaccia di un probabile veto da parte di Washington.

Il commento

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Di Ugo Tramballi, ISPI Senior Advisor

“Quando una tregua è annunciata, smentita, promessa, lasciata intendere e poi rinviata, qualcosa di concreto deve bollire in pentola. Un paio di mesi di calma possono far comodo non solo alle nostre coscienze scioccate dalle immagini di Gaza. Servirebbe anche a Bibi Netanyahu e al suo governo di estremisti: i riflettori del mondo guarderebbero altrove. E converrebbero anche ad Hamas per riorganizzarsi. Ma se il soggetto sono i due milioni di civili palestinesi di Gaza intrappolati fra Hamas e Israele, le loro condizioni, tregua o no, non cambierebbero molto. È certamente essenziale non essere bombardati per un po’. Ma i camion con gli aiuti umanitari riuscirebbero a entrare? E chi garantirebbe il necessario ordine nella distribuzione? Gaza Humanitarian Foundation, la ridicola organizzazione israelo-americana, che pretendeva di sfamare la gente a suo modo, è stata travolta dalla scena biblica di migliaia di affamati: quelle immagini hanno ulteriormente dimostrato quanto gravi siano le responsabilità di Netanyahu”. (Continua a leggere)



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