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Torna il nostro evento. Premier, ministri e imprese, senza filtri


A concludere la seconda edizione de Il giorno della Verità, l’evento organizzato dal nostro quotidiano presso la sede di Palazzo Brancaccio a Roma, l’intervista esclusiva del direttore Maurizio Belpietro al premier Giorgia Meloni.

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Premier, in questi giorni ha fatto discutere la sua decisione di andare ai seggi ma non ritirare la scheda per il referendum. Perché questa scelta?

«Ormai mi aspetto polemiche su qualsiasi cosa. Ho fatto questa scelta per rispetto delle istituzioni: come premier era giusto recarmi alle urne, ma non condivido i contenuti dei referendum. E l’astensione, in questi casi, è una possibilità prevista e legittima. Tutti i partiti, in fasi diverse, l’hanno sostenuta. Anche quelli che oggi mi attaccano. E poi molti dei quesiti referendari riguardano leggi volute proprio dalla sinistra, che ha governato negli ultimi dieci anni. Questo referendum è una questione interna alla sinistra. Io non contribuirò a ridurre i tempi per ottenere la cittadinanza da dieci a cinque anni».

C’è chi parla di tentativi di mandare a casa questo governo. Cosa risponde?

«Che ci provino è normale, ma riuscirci è un’altra storia. La maggioranza è compatta, lavora bene e ha già ottenuto risultati concreti. Ogni volta che convoco una riunione si dice che bacchetto i miei ministri, ma non è vero. Sono fiera del lavoro di tutti, dai vicepremier Salvini e Tajani agli altri. Il nostro obiettivo è portare a termine questa legislatura. La riforma più importante che stiamo facendo è proprio la stabilità. All’estero ce lo riconoscono: prima cambiavano continuamente gli interlocutori italiani, ora c’è solidità, e questo fa la differenza per attrarre investimenti».

Anche se le prossime regionali non dovessero andare bene?

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«Si vota in cinque regioni, ma da inizio legislatura il bilancio è 11 a 3. Difficile pensare che si possa ribaltare la percezione del Paese in un colpo solo».

Alcuni dicono che l’Italia è isolata.

«Non rispondo nemmeno. Chi ha occhi per vedere sa che non è così. L’Italia è tornata protagonista, con autorevolezza. Siamo una grande nazione e una potenza economica, e oggi questa centralità è riconosciuta».

Ha altri incontri previsti con Macron?

«Tre solo questo mese, tra G7 e vertice Nato. Lo vedo più di mia figlia (ride). Anche con Trump ci sono stati vari contatti e ce ne saranno altri».

Sul fronte dazi?

«Ci stiamo lavorando molto. Il dossier è nelle mani della Commissione europea, ma l’Italia ha fatto la sua parte. Il nodo è far coincidere la visione tecnica della UE con quella più politica degli Stati Uniti. Credo che, insistendo sui punti di incontro, si possa trovare un accordo soddisfacente. Separarsi sarebbe un danno per tutti».

In Ucraina, si intravede uno spiraglio per la pace?

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«I segnali non sono buoni. Putin non reagisce alle aperture, ma continua a bombardare obiettivi civili. Questo dimostra che la sua motivazione principale è il controllo delle sfere di influenza. Sosteniamo l’Ucraina perché, se fosse caduta subito, ci saremmo trovati la guerra molto più vicina a casa. La pace, oggi, si difende anche con la deterrenza».

E su Gaza?

«Il nostro governo è stato chiaro fin dall’inizio. Hamas è il principale responsabile di questa guerra, perché ha attaccato Israele e continua a tenere in ostaggio civili. Israele ha il diritto di difendersi, ma deve fermare l’azione militare per proteggere i civili. I Paesi arabi devono giocare un ruolo fondamentale, e noi siamo pronti ad aiutarli».

L’opposizione vi accusa di autoritarismo e di voler impedire le manifestazioni.

«È falso. Il decreto sicurezza inasprisce le pene per chi aggredisce le forze dell’ordine, truffa gli anziani o blocca strade e ferrovie. Manifestare è un diritto, ma senza ledere quelli degli altri. La prima libertà è la sicurezza».

Vi accusano anche di voler zittire il dissenso nel mondo della cultura.

«Noi spendiamo soldi pubblici e dobbiamo usarli in modo serio. Non è accettabile finanziare produzioni che ricevono milioni di euro e poi non portano nessuno al botteghino. Non si tratta di censura, ma di responsabilità nell’uso delle risorse pubbliche».

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