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Rigenerare vecchi spazi per lavorarci dentro assieme (coworking)? Funziona, anche di più in montagna


Nei piccoli comuni e nelle aree interne italiane, il coworking comincia a delinearsi come possibile leva di rigenerazione sociale ed economica. La rivoluzione del lavoro ibrido – sempre più anywhere, anytime, ovunque e in qualsiasi momento – ha rotto il legame rigido tra lavoro, luogo e orario, aprendo nuove possibilità di vivere e lavorare anche fuori dai centri urbani. In questo contesto, i tanti spazi vuoti e sottoutilizzati disseminati nei territori minori assumono un nuovo potenziale: possono essere rigenerati, ripensati nelle funzioni, trasformati in luoghi di lavoro condiviso, relazione e innovazione sociale. È così che prende forma un nuovo paradigma di sviluppo locale, fondato non sulla costruzione di nuovo patrimonio, ma sulla riattivazione dell’esistente. È la logica dell’economia della saturazione: dare nuova vita a ciò che già c’è, generando valore senza consumo di suolo e con un impatto diretto sulla qualità della vita.

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(Foto di Alta Valsugana Smart Valley)

Nel cuore dell’Alta Valsugana, il progetto Smart Valley ha fatto proprio questo approccio, trasformando ex uffici dismessi in hub di prossimità dove il lavoro flessibile diventa occasione di socialità, innovazione e impatto territoriale. Più che semplici spazi condivisi, questi coworking sono oggi motori di attrattività: restituiscono valore ai centri minori, intercettano nuove forme di abitare e generano reti che rafforzano le comunità.

Ne parliamo con Giorgio Vergot, presidente della Fondazione della Cassa Rurale Alta Valsugana, che ha promosso l’iniziativa fin dal primo giorno, e con Ilaria Petrone, referente per la Fondazione del progetto coworking, che ogni giorno accompagna la crescita delle comunità locali intorno a questi spazi. Il loro racconto mostra come, da una fusione bancaria e alcuni edifici vuoti, possa nascere un modello replicabile di innovazione sociale e sviluppo territoriale.

Giorgio Vergot – Presidente della Fondazione Cassa Rurale Alta Valsugana ETS

Presidente Vergot, cosa ha spinto la Fondazione a investire nel progetto Alta Valsugana Smart Valley?
In realtà, è stato proprio il progetto Smart Valley a nascere per primo. L’idea iniziale è partita dalla Cassa Rurale Alta Valsugana, che – dopo una fusione bancaria – si è trovata con alcuni spazi non più utilizzati. Invece di dismetterli, abbiamo deciso di restituirli alla comunità, in linea con il nostro mandato sociale. L’intuizione era tanto semplice quanto potente: trasformare quegli spazi in coworking diffusi, ovvero luoghi di lavoro condivisi, flessibili, accoglienti e facilmente accessibili. Per dare struttura e continuità al progetto, è nata poi la Fondazione, ente del Terzo Settore con vocazione sociale e culturale. La gestione diretta degli spazi ci ha permesso di renderli veri servizi territoriali, integrati e sostenibili.

Qual è il legame tra la rete dei coworking e il principio dell’economia della saturazione?
La nostra rete si fonda su un principio chiaro: rigenerare, non costruire. Abbiamo scelto di non consumare nuovo suolo, privilegiando il recupero di edifici dismessi — spesso di pregio architettonico, situati nei centri dei paesi e da tempo in cerca di nuove funzioni — resi disponibili anche dai processi di fusione delle casse rurali. Oltre l’80% delle risorse destinate ad arredi e strutture è stato reinvestito localmente, valorizzando materiali e immobili già esistenti. La Valsugana è punteggiata da spazi sottoutilizzati che possono tornare a vivere come luoghi abitativi, culturali e comunitari. In un tempo in cui la rigenerazione urbana è una sfida prioritaria, riattivare questo patrimonio rappresenta una risposta concreta a bisogni reali: sociali, abitativi, ambientali.

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Che visione c’è dietro questo modello?
La sfida che abbiamo di fronte è duplice. Da un lato, vogliamo rigenerare immobili dismessi, generando valore soprattutto nei centri minori. Dall’altro, puntiamo a contrastare fenomeni ormai strutturali come la denatalità, l’invecchiamento e l’esodo verso le città. Crediamo che la possibilità di vivere bene in montagna – con servizi di qualità, connessione digitale stabile, abitazioni accessibili e un alto livello di qualità della vita – possa diventare una leva potente di attrattività. È un vero cambio di paradigma: non chiedere ai giovani di andarsene, ma portare il mondo nei nostri territori. Già durante la pandemia avevamo lanciato una call sperimentale sul territorio. La risposta è stata sorprendente, per intensità e varietà: abbiamo ricevuto richieste da persone tra i 18 e i 72 anni, distribuite lungo tutta la valle. Questo ci ha fatto comprendere che la domanda di spazi di lavoro alternativi allo smart working da casa era ampia e trasversale, e non riguardava solo i cosiddetti “nomadi digitali”. È emerso un bisogno profondo di soluzioni nuove, inclusive, radicate nei territori — capaci di tenere insieme lavoro, relazione e qualità della vita.

(Foto di Alta Valsugana Smart Valley)

Smart Valley: può il coworking contribuire alla transizione dei territori verso modelli più sostenibili, abitabili e inclusivi?
Rigenerare i territori decentrati è una delle sfide più rilevanti per il futuro locale. Non si tratta di aree povere di valore, ma spesso trascurate sul piano delle connessioni e delle opportunità. Grazie alla digitalizzazione, anche i piccoli centri possono oggi attrarre nuove energie, integrando qualità della vita, lavoro flessibile e transizione ecologica. Per rendere questi territori davvero attrattivi servono spazi di prossimità, servizi accessibili e ambienti capaci di favorire l’incontro tra persone, idee e competenze. Ci siamo ispirati ad alcune indicazioni della Banca d’Italia e ci muoviamo nella stessa direzione tracciata anche dalla Regione Emilia-Romagna, che con le Leggi Regionali 2/2021 e 5/2018 ha riconosciuto nei coworking un elemento strategico di coesione territoriale e innovazione sociale.

Il progetto Smart Valley non si limita a gestire spazi di lavoro, ma attiva percorsi di imprenditorialità, coinvolge comunità locali e mette in rete esperienze. La Fondazione agisce da facilitatore, sostenendo l’avvio di nuove iniziative e rafforzando i legami sociali. Il sistema include una gestione digitale capillare che consente di costruire una rete diffusa, accessibile e radicata nei territori. Così, ogni hub diventa anche un presidio sociale: un luogo dove si lavora insieme, si esce dall’isolamento e si crea una nuova socialità quotidiana, fatta di piccoli gesti, pause condivise e nuove relazioni, che rafforzano il senso di comunità e vivacizzano il territorio.

Coworking e comunità: quali trasformazioni sociali e culturali avete osservato nei territori?
Abbiamo osservato cambiamenti profondi, spesso silenziosi ma duraturi. L’apertura di un hub in un comune non ha solo attivato un nuovo servizio, ma ha dato vita a una rete di relazioni, costruito fiducia e generato nuove dinamiche sociali. In molti casi, i coworking hanno attratto giovani, favorito il ritorno di residenti e promosso connessioni inedite tra mondi professionali che prima non si incontravano. La forza di questi spazi sta nella loro quotidianità: non sono solo luoghi di lavoro, ma ambienti relazionali dove si combatte l’isolamento e si attiva una nuova forma di socialità. A Civezzano, ad esempio, si sono formati legami che vanno oltre il contesto lavorativo, diventando amicizie e reti familiari che si sostengono nella vita di tutti i giorni.

Gli hub svolgono anche un ruolo culturale e aggregativo importante. Eventi, incontri e percorsi formativi come l’“Academy” – nove mesi di appuntamenti mensili su temi sociali, emotivi e innovativi – hanno contribuito a creare un pubblico stabile e coinvolto, che ha ritrovato nella partecipazione uno stimolo a uscire di casa e sentirsi parte di una comunità. In territori marginali, dove mancano spazi alternativi di incontro, il coworking diventa uno strumento di cura collettiva, un punto di riferimento per dare nuovo ritmo alla vita delle comunità.

In che modo l’adesione alla rete della Federazione Trentina della Cooperazione ha rafforzato il progetto Smart Valley?
L’ingresso nella rete promossa dalla Federazione Trentina della Cooperazione ha trasformato Smart Valley da insieme di hub locali in un progetto collettivo e riconoscibile a livello provinciale, valorizzando la logica cooperativa, la mutualità e la messa in rete dei territori. Questa collaborazione ha ampliato il pubblico raggiunto, includendo non solo residenti ma anche nomadi digitali e professionisti in transito, grazie alla visibilità garantita dal sito e dai canali della Federazione. Sul piano istituzionale, è stata determinante per attivare l’accordo con la Provincia autonoma di Trento, che oggi consente a dipendenti pubblici di lavorare negli spazi coworking, diffusi in 10 sedi operative. La rete attuale comprende 5 hub in Alta Valsugana e altri spazi nelle Valli di  Fiemme, Sole, Primiero, Ledro e sull’altipiano della Paganella, unendo territori diversi sotto una visione condivisa di cooperazione e sviluppo.

Qual è la visione di lungo periodo della Fondazione rispetto a Smart Valley?
Immaginiamo Smart Valley come un ecosistema diffuso, un’alleanza viva tra spazi, persone e comunità, capace di rendere il territorio più abitabile, attrattivo e dinamico. Non vogliamo limitarci a gestire spazi fisici: il nostro obiettivo è sostenere un modello culturale che valorizzi la prossimità, la creatività, la collaborazione come veri motori di sviluppo. È una visione coerente con i valori della cooperazione trentina: partire da ciò che già esiste, ma riattivarlo con nuove energie.

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Nel lungo periodo, puntiamo a far crescere la rete Smart Valley non solo in termini numerici, ma anche nella qualità delle relazioni che è in grado di generare. Vogliamo che sempre più giovani, imprese, enti pubblici e associazioni riconoscano in questi spazi non semplici servizi, ma vere opportunità per costruire insieme valore condiviso. In quest’ottica, i coworking si configurano come vere e proprie infrastrutture sociali e culturali, al servizio dello sviluppo dei territori e delle comunità.

Dal punto di vista operativo, intendiamo completare la copertura della rete in Alta Valsugana, con l’apertura di nuovi spazi sull’Altopiano di Piné e nella zona laghi (Caldonazzo o Calceranica), dove si rileva una forte domanda. In questi contesti è fondamentale la presenza di un attivatore sociale, figura di riferimento per la comunità oltre che gestore dello spazio. Inoltre, ogni coworking potrà sviluppare una propria vocazione specifica, in base alle caratteristiche e ai bisogni del territorio, favorendo la complementarità tra gli hub e una circolarità più dinamica degli utenti.

Ilaria Petrone – Referente del progetto coworking per la Fondazione

Ilaria, come si costruisce una community di coworking in un territorio come l’Alta Valsugana?
La community non nasce automaticamente con l’apertura di uno spazio: richiede tempo, cura quotidiana e relazioni autentiche. Fondamentale è la presenza di un “attivatore”, una figura che conosce i coworker, li ascolta, li mette in connessione, propone momenti condivisi e crea un clima accogliente e informale. È una presenza umana che fa la differenza e contribuisce a trasformare uno spazio fisico in una rete viva. Anche piccoli gesti – come il caffè insieme o una playlist comune – aiutano a generare appartenenza.

Nel nostro territorio, la prossimità geografica non bastava: molte persone, pur vicine, non si conoscevano. Il coworking ha offerto l’occasione per creare nuovi legami tra comuni diversi. Ogni spazio ha sviluppato una propria identità: a Levico, ad esempio, prevale la componente creativa e turistica; a Civezzano è emersa una rete di consulenti e freelance. Il nostro compito è accompagnare questo processo, facendo emergere le energie locali. Una community cresce davvero quando si sente ascoltata, riconosciuta e supportata.

Come vengono utilizzati, in percentuale, gli spazi di coworking della rete?
Attualmente, sui 5 spazi attivi nella rete Smart Valley, abbiamo a disposizione complessivamente 55 postazioni di lavoro, con un tasso medio di occupazione che si attesta attorno al 60%. Questa percentuale non è frutto del caso, ma di una scelta strategica: preferiamo mantenere il 60-70% delle postazioni occupate in modo stabile, riservando un 30-40% di spazi liberi. Questo margine ci consente di gestire meglio il ricambio, di accogliere nuove richieste anche all’ultimo momento e di offrire maggiore flessibilità, soprattutto per chi lavora in modo intermittente o arriva da fuori territorio (nomadi digitali, professionisti in transito, ospiti temporanei). È un modello ibrido che garantisce continuità e apertura allo stesso tempo: da un lato fidelizza gli utenti abituali, dall’altro mantiene una soglia di accessibilità sempre attiva, rendendo gli spazi dinamici e inclusivi.

Che tipo di servizi offre oggi Smart Valley e quali sono i suoi effetti?
Smart Valley è oggi molto più di una rete di spazi di lavoro: è un’infrastruttura di comunità. Abbiamo attivato percorsi di autoformazione, incontri accademici informali, momenti di team building e corsi su soft skills, gestione dei conflitti, ma anche su tematiche più pratiche come uso del defibrillatore, HACCP, sicurezza antincendio e lettura delle etichette alimentari. Corsi semplici, territoriali e diffusi, che rafforzano la consapevolezza collettiva e la qualità dei servizi di prossimità.

(Foto di Alta Valsugana Smart Valley)

Può anche l’arredo o il design del coworking riflettere un nuovo modo di pensare il lavoro e lo spazio?
Assolutamente sì. L’arredo diventa espressione concreta di una visione sostenibile e rigenerativa. Nei nostri coworking, ad eccezione di Pergine, abbiamo scelto di valorizzare l’esistente, trasformando ex uffici in spazi condivisi attraverso il riuso degli arredi già presenti: un approccio coerente con l’economia della saturazione. A Pergine, partendo quasi da zero, abbiamo potuto co-progettare lo spazio con maggiore libertà, dialogando anche con il mondo dell’artigianato locale. Questo apre alla possibilità di creare coworking come luoghi ibridi, dove design, manualità e nuove tecnologie si incontrano. L’arredo, quindi, non è solo funzione, ma diventa parte integrante del messaggio culturale e sociale che lo spazio vuole trasmettere.

(Foto di Alta Valsugana Smart Valley)

Quali funzioni può svolgere uno spazio di coworking per la comunità locale?
Il rapporto tra coworking e comunità è un tema centrale, e rappresenta probabilmente la seconda grande sfida del nostro progetto, dopo quella legata alla rigenerazione degli spazi. Per crescere in questa direzione sarà fondamentale ampliare il nostro team e attivare nuove collaborazioni con soggetti pubblici e privati del territorio. Uno spazio di coworking può diventare un vero motore di attivazione comunitaria. Pensiamo ad esempio alla possibilità di stipulare convenzioni con i Comuni, con voucher per l’accesso al coworking, oppure alla connessione con i servizi per le famiglie, come gli asili nido, per rendere più semplice la vita a chi lavora da remoto o in maniera flessibile. Oppure ancora, a sistemi di ospitalità leggera, legati alle APT, per accogliere chi lavora temporaneamente sul territorio, magari con formule smart come camper, appartamenti brevi o co-living.

Un altro ambito importante è quello della ristorazione locale: in alcune sedi, come a Tenna, abbiamo già sperimentato accordi per offrire pranzi convenzionati agli utenti del coworking. In presenza di piccoli gruppi (anche 6-8 persone), questo tipo di convenzione diventa sostenibile per gli esercenti e utile per chi lavora, creando connessioni tra economie locali e nuove modalità di vivere il territorio. Guardando al futuro, lo spazio di coworking potrebbe anche diventare un punto d’incontro culturale, con eventi, laboratori, iniziative per i giovani e per le famiglie. Un luogo dove il lavoro incontra la comunità, e dove si costruiscono legami tra persone, competenze e territori.

Quali sono le prossime sfide per lo sviluppo del progetto?
La prima sfida concreta è l’espansione: aumentare il numero di persone coinvolte e attivare nuovi centri di coworking sul territorio. A Pergine, oggi, disponiamo di 12 scrivanie fisse, 15 postazioni flessibili utilizzabili durante il giorno e anche la sera, oltre a 3 sale riunioni. In totale, oltre 40 persone frequentano quotidianamente lo spazio. Questo conferma che il modello funziona nei nostri 5 spazi e può essere replicato in altri contesti, soprattutto se supportato da una rete territoriale solida.

Oltre alla crescita numerica, puntiamo sulla qualità dell’impatto. Vogliamo misurare i risultati attraverso le relazioni attivate, le storie di cambiamento e i progetti nati all’interno degli hub, non solo con dati quantitativi. Le storie dei coworkers, in particolare, sono una testimonianza viva ed efficace per far comprendere cosa sono realmente questi spazi e i valori che trasmettono: collaborazione, fiducia, innovazione sociale. Per questo stiamo strutturando un percorso di storytelling per raccogliere e valorizzare queste esperienze.Parallelamente, lavoriamo per la sostenibilità economica, costruendo alleanze con enti pubblici, imprese e realtà del territorio.

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NOTA METODOLOGICA

In questo approfondimento metodologico propongo due pillole formative: la prima sull’importanza del “noi” e del lavorare insieme; la seconda sul ruolo del coworking nella trasformazione del lavoro in un’epoca di transizione digitale.

“Da soli non ce la facciamo più”
Le esperienze raccontate – e quelle che seguiranno – mostrano con chiarezza che da soli non ce la facciamo più. Stanno emergendo modelli fondati sul “co–”: co-abitare, co-lavorare, co-creare, co-esistere… È il ritorno del “noi” come infrastruttura relazionale, culturale ed economica, costruita attraverso coworking, coliving, cohousing, coprogettazione… Una risposta collettiva alle sfide contemporanee, che mette al centro cooperazione, mutualismo e territorio.

Spazi che connettono: il coworking e la rivoluzione del lavoro
In parallelo, il lavoro è cambiato: non più legato a un luogo fisico, ma fluido, personale, distribuito. Questo ha aperto nuove possibilità: spazi vuoti, marginali, sottoutilizzati diventano luoghi da abitare, da animare, da riattivare. Ciò che era periferia torna ad essere centro. E si fa spazio un nuovo modo di vivere e lavorare, in equilibrio tra libertà individuale e legami comunitari.

I coworking interpretano tutto questo: non sono semplici scrivanie condivise, ma cantieri di innovazione sociale, presìdi civici, generatori di capitale sociale. Offrono opportunità, tessono reti, restituiscono senso e funzione ai luoghi. Per questo rappresentano uno strumento potente di rigenerazione per i territori che vogliono tornare ad essere vivi, attrattivi e sostenibili. Di seguito si individuano dieci elementi chiave che rendono il coworking un motore di trasformazione territoriale.

Contrasto allo spopolamento Il coworking insieme alle altre politiche offre un’opportunità concreta per fermare l’esodo dai piccoli centri. Spazi di lavoro accessibili e di qualità permettono a giovani, famiglie e professionisti di restare o tornare a vivere nelle aree interne.
Infrastruttura territoriale I coworking possono diventare punti di riferimento quotidiani, come scuole o biblioteche. Forniscono servizi essenziali e generano reti di relazione, visibilità e sostegno alle microeconomie territoriali.
Spazi ibridi, multifunzionali e generativi Oltre al lavoro, ospitano formazione, eventi, cultura e cittadinanza attiva. Sono luoghi dove si intrecciano competenze e comunità, creando reti sociali e un nuovo senso di appartenenza della comunità locale.
Attrattività per nomadi digitali e turismo di prossimità Aperti anche a turisti e smart worker, rendono competitive le aree interne. Offrono la possibilità di lavorare da luoghi decentrati, generando turismo sostenibile e nuove forme di abitare temporaneo.
Connessione con i servizi territoriali Quando collegati a trasporti, mense, scuole, botteghe, i coworking attivano una rete di prossimità che migliora la qualità della vita e sostiene la permanenza nei piccoli centri.
Design sostenibile e identità dei luoghi La cura dello spazio è centrale: ambienti accoglienti, funzionali, progettati con materiali sostenibili e ispirati all’identità locale aumentano benessere, produttività e senso di appartenenza.
Attivazione della community La community va costruita con attenzione. Servono figure competenti che conoscano il territorio e facilitino connessioni tra coworkers e comunità.
Differenziazione e specializzazione degli hub Ogni coworking può sviluppare una propria vocazione: creatività, cura, turismo, giovani. La rete funziona se è complementare, flessibile e connessa con altre realtà come scuole, biblioteche o centri culturali.
Un ambiente educativo e sostenibile Oltre che spazio di lavoro, il coworking è un luogo di vita quotidiana: si fa raccolta differenziata, si cucina insieme, si ricaricano bici e auto elettriche, si trovano defibrillatori e si organizzano eventi formativi.
Integrazione tra casa e lavoro L’integrazione tra coworking, coliving e cohousing stimola il recupero del patrimonio residenziale e la nascita di nuovi modelli abitativi. L’abitare collaborativo, unito a spazi di lavoro di prossimità, ha un effetto moltiplicatore sul ripopolamento e la vitalità dei territori.

di Luciano Malfer
Research and Family Development Manager
Fondazione Bruno Kessler, Trento, Italy



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