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Trump promette meno controlli, ma togliere regole alla finanza è un rischio enorme


Qual è il rischio di una crisi tipo quella che ha colpito il sistema finanziario mondiale nel 2008-09? Non sto parlando delle nostre banche, solide e profittevoli, come di recente sottolineato dal Governatore della Banca d’Italia Panetta durante le sue Considerazioni Finali il 30 maggio scorso. Sto parlando della finanza internazionale, spesso basata negli Stati Uniti, ma che, di fatto, opera in tutto il mondo.

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Per rispondere, parto da una considerazione. La finanza è costituita da due tipi di operatori. Da un lato ci sono quelli sottoposti a un sistema stretto di regole, chiamiamoli “banche”, caratterizzate dal fatto che raccolgono depositi da famiglie e imprese. Dall’altro ci sono operatori che, interagendo con un numero ristretto di clienti di maggiore dimensione, sono sottoposti a poche regole. È il settore bancario “ombra” (shadow banking) che comprende ora anche operatori che agiscono nel campo delle criptovalute e che, quindi, finiscono col coinvolgere anche piccoli risparmiatori attirati dalle prospettive di facili guadagni.

 

In questo contesto due cose preoccupano. La prima è che, negli Stati Uniti, la presidenza Trump sia orientata ad allentare i controlli sul primo settore, quello degli operatori maggiormente regolati, in nome di un potere rigenerativo della liberalizzazione finanziaria. Ci eravamo già cascati una volta, prima che la crisi finanziaria del 2008-09 ci ricordasse che il settore della finanza, essendo basato su un bene intangibile chiamato “fiducia”, richiede regole più strette di quelle degli altri settori. Il governatore Panetta ci ha messo in guardia rispetto a questa deregolamentazione, sempre nelle sue Considerazioni Finali: occorre sì semplificare la regolamentazione finanziaria anche in Europa, ma un conto è semplificare, un altro è deregolamentare.

 

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La seconda cosa preoccupante è la crescita dello shadow banking. Non che sia un fenomeno nuovo, ma negli ultimi tempi qualcosa di diverso è accaduto. 

 

L’ultimo numero dell’Economist contiene un’analisi approfondita di come “società finanziarie innovative abbiano rimpiazzato le banche al vertice di Wall Street” e di come si  viva ora “in un’epoca non solo di banche colossali, ma anche di gestori di attività finanziarie, hedge funds (società specializzate in investimenti ad alto rischio e rendimento), imprese di private equity (società che comprano imprese, le ristrutturano e le rivendono con un margine di profitto) di dimensione gigantesca” che hanno canalizzato il capitale finanziario in idee innovative, ma anche ad alto rischio.

 

In questa situazione, non è inconcepibile che uno shock economico, per esempio quello derivante da una ripresa prolungata e violenta della guerra sui dazi o da una perdita di fiducia nel mercato dei titoli di Stato americani (ora considerati meno solidi del passato) porti a un riallineamento nel valore delle attività finanziarie e a crisi di liquidità di qualche grande operatore finanziario. È vero che gli shock degli ultimi anni (Covid, aumento dei tassi di interesse) sono stati assorbiti senza troppi problemi. 

 

Ma i rischi sono aumentati, come conclude anche il Global Financial Stability Report pubblicato in aprile dal Fondo Monetario Internazionale e la deregolamentazione finanziaria a cui è orientata l’amministrazione americana non servirà certo a ridurli.   



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